Renzi, il Pd e il bene comune

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A più di una settimana dal responso amministrativo in parecchi piccoli e grandi Comuni del nostro Paese, con la pubblica opinione ancora polarizzata nell’uscita della Gran Bretagna dall’UE con la serenità di giudizio, sempre più necessaria, è possibile delineare qualche spunto analistico sulle ragioni effettive che hanno messo in discussione il reiterato riformismo renziano. Anzitutto è apparso evidente la mancanza di una classe dirigente Pd presente sui territori interessati dal voto e in essi profondamente radicata. È un dato questo che non aggiunge nulla ad una necessità, più volte avvertita, che non ha trovato la risposta dovuta in una seria e permanente formazione di una classe politica dirigente, atutti i livelli, capace di leggere, interpretare e risolvere i tanti problemi connessi alle più elementari urgenze sul tappeto: agire politico come servizio per il bene comune, partecipazione attiva e responsabile all’interno di un modello politico vivo e presente sul territorio, con luoghi e momenti di analisi e proposta coinvolgenti tutto il tessuto comunitario, affrancati dagli interessi dei pochi e lontani dallo scontro personale degli attori politci in campo. È una cronica carenza questa che si rileva, con forte evidenza anche nella nostra realtà provinciale irpina, dove tutti sono in libera uscita e tutto l’agire politico è racchiuso in un miserevole tentativo di costruire frettolosamente uno spazio personale di personaggi senza storia e senza pensiero politico credibile. All’interno di questo confuso contesto alligna facilmente l’antipolitica, il populismo riformatore e la promessa per una immediata soluzione dei problemi. La rabbia della gente – quella che quotidianamente è alle prese dei tanti problemi che si chiamano disoccupazione, famiglie in disfacimento, paura per il futuro, sfiducia nelle istituzioni, corruzione sempre più dilagante – trova agevole canalizzazione nel voto di protesta di coloro che, in nome di un ribaltamento totale della situazione e per la prima volta, si presentano al giudizio elettorale con un movimento di protesta che assume sempre di più la connotazione di una proposta politica diversa da quella offerta dai partiti politici tradizionali incapaci di arginare il fenomeno. La cospicua stratificazione sociale del vecchio ceto medio – attualmente polverizzato in tante sottocategorie – è parte preponderante di questa fiumana di consenso che ha travolto – per penalizzare il partito rappresentato – finanche amministrazioni che hanno operato positivamente, come quella torinese del sindaco Fassino: il partito che per tanti decenni ha costituito, l’organizzazione paradigmatica generatrice di consenso è diventato un fardello pesantissimo che mette in affanno anche candidati autorevoli che meritavano consenso. Attualmente la compagine partitica che ha pagato di più a causa del fenomeno degenerativo in atto è stato il PD: ha perduto la sua chiara collocazione popolare, tra la gente che ha paura per quel minimo di spazio socioeconomico posseduto, tra i pensionati che fanno da ammortizzatori sociali per i loro figli e nipoti, tra le componenti residue del già ricordato ceto medio, tra coloro – cristiani e non credenti – che hanno creduto nella generosa sintesi tra culture con storie e contenuti diversi ma impegnati nelle finalità umane e sociali comuni da perseguire. L’insopportabile livello di ingiustizia sociale, la paura e lo sconforto delle periferie, i giovani disorientati e gli anziani in trepidazione hanno abbandonato gli approdi programmatici apparsi possibili dall’iniziale riformismo renziano e nessuno, a Roma, a Napoli, o nell’ultimo comune dove si è votato, è stato capace di consentire l’accesso alla persuasione che non è facile e con la fretta invocata, risolvere i tanti problemi quotidiani. Anzi nell’animo delle stratificazioni popolari, del sud e nel nord del Paese, si è insinuato il convincimento, che il teorema riformista di Renzi possa con le non poche attenzioni per il mondo finanziario forte e con il discutibile e miserevole bonus mensile degli ottanta euro che ha costretto, alla fine, molti dei beneficiari alla quasi totale restituzione fiscale. Gli italiani, sosteneva sovente, un vecchio professore di liceo, "sono poveri, ma non fessi". A fronte di questa deriva populista, ormai a dimensione globale, per restituire dignità e credibilità alla politica è sbagliato insistere su provvedimenti legislativi che assegnano ipertrofici premi di maggioranza ai partiti maggiormente rappresentati non si sa, alla fine, di quale maggiore rappresentanza si tratta, se alle urne, si presenteranno ancora meno della metà degli aventi diritto. La non partecipazione al voto s’inquadra, verosimilmente, nell’assopita partecipazione di momenti di cittadinanza attiva di una rilevante parte di cittadini impegnati nel vastissimo mondo del volontariato e della promozione sociale presente nel nostro Paese. Questa risorsa preziosa, Renzi lo ha solo parzialmente capito, va utilizzata per svolgere l’urgente azione di pedagogia sociale che, attualmente, non svolge né la scuola, né la famiglia: è davvero assurdo pretendere partecipazione attiva e responsabile quando nessuno la promuove con impegno credibile perché disinteressato. È altrettanto assurdo invocare la necessità di avere una classe politica dirigente capace quando si assiste progressivamente al disfacimento di percorsi progettuali finalizzati, all’impegno sociale e politico: se i partiti non sono più in grado di autorigenerarsi, bisogna avvertire l’esigenza di aprire cantieri formativi per le giovani generazioni, diversamente condannate all’ulteriore deriva populistica, già macroscopicamente in atto.
edito dal Quotidiano del Sud