Renzi replicante al Lingotto

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La “Convention” renziana del Lingotto è stata la replica, in tono decisamente minore, delle trionfalistiche “Leopolde” fiorentine. Allo stesso tempo, però, essa ha tentato esplicitamente, già nella scelta evocativa del luogo, di riprodurre il “Lingotto” veltroniano del 2007, fondativo del PD. Ma Renzi non è Veltroni, e il 2017 è lontano, politicamente, anni luce dal 2007. Inoltre, se il “format” dello spettacolo politico torinese ha utilizzato palcoscenici, scenari e fondali già visti e usurati, lo stesso indiscusso protagonista unico della rappresentazione, ossia Matteo Renzi, pur nel tentativo di rilanciarsi, non ha fatto altro che replicare il suo personaggio. Vero è che questa volta, meglio consigliato, Renzi ha dismesso, almeno per un momento, i consueti toni esagitati e il look del “descamisado”, indossando giacca e cravatta e non agitandosi freneticamente per tutto il palco come una qualsiasi rock star. Ma, andando più a fondo, al di là degli elementi di colore, la “replica” messa in scena dal personaggio renziano presenta connotati politici inquietanti per la sua sostanziale assenza di proposta programmatica e di pensiero politico. Basti dire, difatti, che di fronte a problemi epocali e strutturali come la crisi dell’Europa, ha saputo proporre nientemeno che l’elezione diretta (naturalmente previe primarie) del presidente della Commissione europea! Renzi si è poi chissà perché scoperto “garantista” sui problemi della giustizia, dopo aver fatto dimettere, con “giustizialismo” demagogico in base solo a labili accuse e sospetti, numerosi ministri, dalla Cancellieri a Lupi, dalla De Girolamo alla Idem. E, peggio ancora, la “svolta” renziana avviene dopo che il suo governo ha proposto, a soli fini demagogici, un demenziale e antigiuridico prolungamento dei tempi della prescrizione, che il parlamento si accinge ad approvare, e ispirato al giustizialismo puro e duro, alla faccia della «ragionevole durata» dei già interminabili processi. L’abisso tra le parole e i fatti, tra la demagogia e l’azione di governo, raggiunge qui evidentemente il suo culmine. Ma questo è un fenomeno assai noto e comune a tutte le società in crisi e a tutti i regimi in disfacimento. Basti ricordare quanto diceva Cicerone nelle Catilinarie: «È da tempo che abbiamo perduto il vero significato delle parole: poiché la dissipazione dei beni altrui la chiamano liberalità, mentre l’audacia nel male è detta forza d’animo; per questo lo Stato è allo sfascio ». Insomma, quello di Renzi è stato un discorso di 70 minuti fatto di nulla. O meglio, qualcosa c’è, ed è l’unica: la proclamata volontà di riafferrare il potere, tutto il potere, servendosi della segreteria del partito per scalare nuovamente Palazzo Chigi, che è l’unica cosa che gli interessi veramente. Ma, al di là di tutte le sue chiacchiere e slogan, Renzi appare sostanzialmente vuoto e usurato, condannato quindi alla replica di se stesso, risultando addirittura “spompo”, per usare una cruda definizione renziana a proposito di Bersani. In effetti, è almeno dal 2008 che i poteri dominanti in Europa, hanno sperimentato varie formule politiche e di governo che meglio possano risultare funzionali al disegno complessivo di ristrutturazione della società in senso sinarchico per quanto riguarda la concentrazione dell’esercizio del potere e oligarchico per quanto attiene alla distribuzione del reddito. La conseguenza generale è stata la patologica regressione della politica verso la “privatizzazione” e la “personalizzazione” più o meno carismatica. La costruzione e l’affermazione del “personaggio” Renzi s’inseriscono appieno in questo contesto. Al montare del malcontento di fronte alle disastrose politiche economiche dell’Unione Europea e alle loro devastanti conseguenze sociali, le oligarchie finanziarie dominanti, che costituiscono il vero “zoccolo duro” dell’Unione, avevano infatti immaginato, dopo lo sciagurato esperimento del governo tecnocratico di Monti, di opporre al “virus” del cosiddetto populismo un antidoto uguale e contrario: quello, appunto del “rottamatore” Renzi. Ma il “vaccino” renziano, fatto di demagogia pressappochistica, di retorica giovanilistica, di improvvisazioni avventuristiche e soprattutto di ossessiva occupazione di ogni spazio di potere, non poteva non risolversi nel disastroso fallimento della sua esperienza di governo, culminato nella rovinosa “débâcle” al referendum costituzionale del 4 dicembre. Questo evento decisivo, che ha segnato la caduta del disegno di fare dell’Italia la “Repubblica di un uomo”, ha mortalmente ferito il carisma del personaggio, che da allora si è avviato verso l’ine vitabile declino. Ma Renzi non pare essere stato ammaestrato dall’espe rienza, condannandosi quindi a subire inevitabilmente quelle che Hegel e Marx chiamavano le «dure repliche della Storia ». Gli indizi e le prove dell’abbandono dei numerosi passeggeri del Titanic renziano si vanno infatti sempre più moltiplicando. Non tanto la scissione, quanto piuttosto la decisione di Orlando e di Emiliano di candidarsi alla segreteria appare in questo senso estremamente significativa. Non perché i due ritengano di poter vincere la partita del congresso, ma perché si preparano, in un futuro abbastanza ravvicinato, a raccogliere i cocci di quanto resterà del “rottamato” PD renziano.
edito dal Quotidiano del Sud