Rumiz racconta la Via Appia: la frontiera come opportunità

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Ieri il giornalista ospite al Circolo della stampa

 

La frontiera come opportunità. Lo ripete più volte Paolo Rumiz, nel presentare al Circolo della stampa il suo volume "Appia", edito da Feltrinelli, racconto del viaggio lungo l’itinerario della via regina d’Europa. Rumiz parla di una vera "chiamata alle armi" per la gente irpina: «Non possiamo restare in attesa di liberatori, la valorizzazione del territorio vi chiede di sporcarvi con le vostre scarpe. Siete voi che dovete cominciare il cammino». Quindi, racconta la sua storia di figlio di emigranti: «Mio nonno aveva otto anni quando si imbarcò per Montevideo, cominciò a lavorare nei cantieri edili a Buenos Aires, fino a diventare imprenditore. Dopo la sua morte mia nonna non ebbe altra scelta che ritornare in Italia, erano così poveri che mio padre fu affidato a mia zia». Frontiere che sono parte della sua cultura : «Sono nato a Trieste, città di frontiera per eccellenza, quello che per alcuni era una maledizione, per me era  un’opportunità. Il mio sogno è sempre stato quello di valicare frontiere ed è quello che ho fatto negli ultimi 15 anni della mia esistenza, ho avuto il privilegio di fare le cose con lentezza, fino ad assorbire e comprendere i luoghi che attraversavo». Del resto sottolinea come «mi è sempre apparso assurdo che una via secondaria d’Europa quale il camino di Santiago avesse raggiunto una tale popolarità che la via Appia, centrale negli antichi traffici commerciali, non ha mai avuto. Ho scelto di imbarcarmi in quest’avventura anche perchè tutti me la sconsigliavano, mi dicevano che avrei incontrato tir, lo spettro di Gomorra, ostacoli a non finire, ma mi affascinava l’idea che fosse una via ancora tutta da scoprire. Basti pensare che i 540 km originari della via Appia sono diventati 612 proprio a causa di ostacoli come l’Ilva, costruita sul passaggio dell’antica strada. A parte Mirabella la cui appartenenza alla via Appia è certa, l’irpino medio non sa di appartenere a quella che era una delle vie più importanti d’Europa». Quanto all’Irpinia, spiega di aver trovato una «terra geneticamente modificata dalla ricostruzione ma che conserva intatta l’ospitalità greca, calda e accogliente. Un itinerario caratterizzato da una sequenza incredibile di paesaggi, da un alternarsi continuo di lingua, sapori e umanità. L’Appia gioca a rimpiattino con la 303, in un percorso di inseguimenti continui. Un viaggio che è stato anche l’occasione per riscoprire la centralità geografica dell’Irpinia, non altrimenti percepibile, percorrendo l’tinerario abbiamo scoperto che questa terra è il punto di scavalco dell’osso delo stivale». A sorprendere lui e i suoi compagni di viaggio lungo l’itinerario uomini e donne riconducibili a due tipologie, i «depressi convinti che il meridionale è condannato dal suo dna a restare ai margini e i vittimisti che attribuiscono al Nord e al governo la colpa dell’arretratezza di alcune aree del Sud. Abbiamo dovuto spiegare loro che nessuno dei due aveva ragione. Tuttavia, che degli uomini del Nord affrontassero un viaggio a piedi lungo la via Appia, attraversando luoghi sconosciuti anche ai meridionali, ha significato per questa gente una ripresa di fierezza identitaria». A prendere parte al dibattito Amalio Santoro del centro Dossetti, Francesco Saverio Festa dell’osservatorio Vardaro, Letizia Monaco della Comunità Accogliente di Mercogliano, Dimitri, in rappresentanza della comunità di migranti irpina per ribadire la possibilità di un’alternativa per il Sud, che passa proprio per il recupero di risorse preziose come l’Appia.