Sibilia e quel calcio perduto

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Il prossimo 4 novembre avrebbe compiuto cento anni, se ne è andato il 29 ottobre di sei anni fa. Antonio Sibilia è un pezzo di storia della nostra provincia. Avellino, per molti in Italia, è nota, purtroppo, per il terremoto del 1980 ma anche per la sua squadra di calcio che per dieci bellissimi anni ha giocato in serie A. Il merito principale è di “Don Antonio”. Diventa presidente nell’ottobre di 50 anni fa, pochi anni dopo la prima scalata, la squadra guidata in panchina da Giammarinaro, vince il campionato di serie C e per la prima volta partecipa ad uno di B. Giocatori indimenticabili, dal portiere ex Inter Miniussi al mediano Zucchini, a Bruno Nobili, venezuelano d’origine e sinistro impareggiabile che inaugura il grande filone dei numeri dieci dell’Avellino; seguiranno, infatti, Lombardi, Vignola, Colomba, Dirceu, solo per citarne alcuni. Nel ’78 lascia la presidenza ad Arcangelo Iapicca, l’Avellino vola in serie A sconvolgendo tutti i pronostici. Sibilia non può resistere dietro le quinte e si riprende il comando, non lo molla fino al 1983. Celebri le sue intuizioni calcistiche e le guerre con gli allenatori. Litigate furibonde con Vinicio che viene esonerato nel ’82 quando la squadra è in zona Uefa e sostituito da Tobia, mentre di Marchesi, primo allenatore della serie A disse: “è come un medico che non ti fa mai morire, ma neanche star bene”. La sua grande sapienza calcistica non li faceva sbagliare gli acquisti, pur se qualche errore nella sua gestione c’è stato. Quando alle società di serie A fu consentito di tesserare due giocatori stranieri, l’Avellino ingaggia il peruviano Barbadillo, ancora ricordato come uno dei calciatori più forti visti al Partenio, ma arriva anche il danese Skov. Celebrato come un grande centravanti, delude le attese e non copre il vuoto lasciato da Juary. Il piccolo brasiliano arriva ad Avellino nell’estate del 1980, una stagione incredibile e sfortunatissima. La squadra parte con l’handicap della penalizzazione di cinque punti per lo scandalo scommesse, il 23 novembre il sisma scuote l’Irpinia, un terremoto violentissimo, una tragedia immane. Juary con i suoi gol, con la danza intorno alla bandierina del calcio d’angolo, è il simbolo della rinascita. Reti e samba per rivedere la luce dopo il tunnel del sisma. L’Avellino si salva anche in quell’occasione e Sibilia è sempre il padre-padrone. Negli anni acquista e poi vende alla Juventus il portiere Tacconi, il difensore Favero, il talentuoso Vignola. Oggi quel modo di fare calcio non c’è più e nemmeno potrà più tornare. Sibilia era unico e non ha eredi. Lui stesso quando uscì di scena, disse che lo faceva perché non si divertiva più e perché il calcio ormai è in mano ai procuratori “quando si chiamavano mediatori, li cacciammo dal calcio. Ora comandano loro. Contano i loro telefonini che decidono i risultati delle partite. E il pesce puzza dalla testa”. Gli anni ottanta sono stati gli anni delle provinciali in serie A, non solo l’Avellino, anche l’Ascoli di Costantino Rozzi, il Pisa di Anconetani e il Catanzaro guidato in campo da Piero Braglia attuale tecnico dei biancoverdi. Anni irripetibili. Oggi quel calcio, quello stadio pieno ci manca ancora di più. Questo maledetto covid ci sta costringendo a disertare curva e tribuna. Lo scrittore spagnolo Javier Marias ha scritto che “l’ideologia, la religione, la moglie o il marito, il partito politico, il voto, le amicizie, le inimicizie, la casa, le auto, i gusti letterari, cinematografici o gastronomici, le abitudini, le passioni, gli orari, tutto è soggetto a cambiamento e anche più di uno. La sola cosa che non sembra negoziabile è la squadra di calcio per cui si tifa”.

di Andrea Covotta