Squacqualacchiun, la maschera della resilienza

Un viaggio attraverso la memoria, le suggestioni e le immagini del giovane fotografo Pasquale Zarra

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Di Pasquale Zarra

“Le scosse non hanno ucciso gli Squacqualacchiun.”
Nel 1980 un devastante terremoto ha distrutto gran parte dell’Irpinia (che per chi non lo sapesse, è l’area geografica che corrisponde in grosso modo alla provincia di Avellino), e tra i paesi che hanno subito i danni maggiori c’è Teora, luogo d’origine dei miei nonni paterni.
Le scosse hanno reso Teora quasi irriconoscibile, la bellissima chiesa madre è ormai un insieme di ruderi, si potrebbe dire che il centro storico sia inesistente, e l’architettura dei nuovi palazzi è a dir poco deprimente. È difficile non ricordarsi che qui il 23 novembre 1980 sono morte ben 137 persone ogni volta che si cammina per le strade del quasi perennemente desolato borgo, tant’è che lo scorso ottobre non c’è neanche stata la processione in onore di San Rocco, evento tanto atteso da mia nonna e che ha caratterizzato le prime domeniche del mese della mia infanzia.


Il terremoto ha tolto tanto a Teora, eppure non è riuscito ad annientare gli Squacqualacchiun, maschera tradizionale teorese che trova le sue origini nel mondo contadino, quando gli uomini si travestivano indossando delle calzamaglie a mo’ di maschera per non essere riconosciuti e si dirigevano dai latifondisti esigendo che quest’ultimi gli dessero ciò che gli spettava, spesso prendendo a calci le porte dei ricchi signori per entrare.
Oggigiorno gli Squacqualacchiun (che significa “sfruttato”, “maltrattato”) girano per le vie del paese facendo rumore con dei campanacci, cantando e facendo sosta in ogni bar per bere dell’alcol (in passato era molto comune che gli uomini che decidevano di travestirsi si ubriacassero mettendo sottosopra Teora), e l’evento raggiunge il culmine quando viene dato fuoco ad un fantoccio che viene poi ripetutamente percosso dagli Squacqualacchiun, prima di iniziare una caotica danza pagana attorno al fuoco.
Lo squacqualacchion è simbolo della resilienza di un paese che come tanti altri sta subendo il fenomeno dello spopolamento, non posso garantire alla mia terra che un giorno tornerò, ma posso assicurarle che la racconterò ovunque sarà possibile usare la mia voce, che altro non è che l’eco di un popolo la cui storia è tuttora sconosciuta a molti.