Un futuro per l’alleanza di governo?

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Responsabilità ed unità sono le parole più usate in questa fase dal Capo dello Stato preoccupato che la situazione Covid finisca per aumentare le distanze politiche che invece dovrebbero essere ridotte, serve, insomma, una maggiore convergenza. In tutta Europa i governi non riescono a vedere con chiarezza nel prossimo futuro, in Italia l’esecutivo, nato da un’alleanza istantanea tra partito democratico e movimento cinque stelle, sta attraversando la nuova tempesta autunnale. Il virus ha messo in evidenza i limiti di una coalizione che si è formata, non dopo una lunga riflessione come, ad esempio, il centrosinistra negli anni sessanta, ma è nata dalla necessità e dalla velocità di ridare un governo al Paese dopo lo strappo consumato tra i grillini e Salvini. Da quando si è insediato il Conte 2 molte cose sono cambiate, l’alleanza si è proposta, non alle regionali, ma in alcuni comuni mentre il governo sta affrontando ormai da settimane la duplice e tremenda emergenza economica e sanitaria che rischia di portare al collasso gli ospedali. Difficile andare avanti tra le tensioni con più di un esponente della maggioranza che immagina o addirittura lavora per un premier diverso da Conte. Per superare le difficoltà quotidiane ci vorrebbe un cambio di passo sia a livello nazionale sia a livello locale dove si potrebbe rinsaldare l’intesa in vista delle prossime elezioni comunali. Un test molto importante visto che riguarda le principali città italiane: Roma, Milano, Napoli, Torino e Bologna. Il PD vorrebbe orientarsi sulle primarie per scegliere i candidati ma al momento solo nella capitale, sono state fissate e si faranno entro dicembre. A Milano si attende la decisione del sindaco uscente Beppe Sala, mentre a Napoli e a Torino si lavora per “cucire” un’intesa con i Cinque Stelle. Nel capoluogo piemontese la possibile alleanza si potrebbe costruire alla luce della decisione di Chiara Appendino di non ricandidarsi alla guida della città.  Nella breve storia politica dei Cinque Stelle nessuno dei suoi 46 sindaci è mai stato riconfermato dopo il primo mandato, c’è riuscito solo Federico Pizzarotti a Parma, ma lui aveva già lasciato il movimento. Per ora l’unica “big” a volerci riprovare è Virginia Raggi. La situazione di Roma è, inoltre, tra le più delicate soprattutto per il PD. Zingaretti non è riuscito a convincere nessuno tra le personalità importanti del partito come il Presidente del Parlamento Europeo David Sassoli, il ministro dell’economia Gualtieri o gli ex premier Paolo Gentiloni ed Enrico Letta. In questo quadro si è inserita la candidatura dell’ex ministro e attuale parlamentare europeo Carlo Calenda, che però ha lasciato i democratici e fondato un suo movimento: Azione. Le primarie, quindi, sono ridiventate una possibile strada da percorrere per il partito democratico. Il meccanismo, però, con il tempo non risponde più ad una logica di selezione della classe dirigente ma si ricorre alle primarie in modo occasionale perché come ha scritto Paolo Mieli “sono diventate qualcosa che i leader scelgono a piacimento, quando non hanno sottomano un candidato che considerino unanimemente all’altezza. In genere si procede così: il segretario del partito lascia filtrare il nome di qualche personalità che goda di buona reputazione; la personalità si dice onorata ma risponde con un no grazie; inizia allora una sarabanda di autocandidature, personaggi considerati di minor valore dei primi il cui rifiuto nel frattempo viene assai valorizzato dai media. Messa in questi termini, l’offerta di candidatura in seconda istanza non è un segno di grande riguardo”. Occorre dunque ridare una dignità al meccanismo delle primarie, ma soprattutto PD e Cinque Stelle devono stabilire se dare una prospettiva all’alleanza di governo oppure rimanere a presidiare i loro rispettivi campi.

di Andrea Covotta