Una storia in punta di lapis. Il rammarico di Dorso

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Di Matteo Claudio Zarrella

I Savoia, nella sera dell’8 settembre, a poche ore dall’annuncio dell’armistizio, si rifugiano al Ministero della Guerra per passarvi la notte e prepararsi alla fuga, mentre succedono scontri, a partire dalle 23.00, tra Granatieri di Sardegna e tedeschi, al posto di blocco del Ponte della Magliana. Si contano i primi morti della Resistenza italiana. Nell’ ufficio di via XX Settembre del Ministero della Guerra, alle ore 5,15 del 9 settembre 1943, il generale Roatta, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, scrive in punta di lapis, su un pezzo di carta, un ordine del giorno, scolorito, umbratile, segreto, come per non lasciare traccia nel registro della Storia. Il giorno che prende l’ordine è il 9 settembre 1943. A riceverlo è il generale Carbone, comandato a spostare l’armata motocorazzata, predisposta a difesa di Roma, verso Tivoli. Un “pizzino” che sottintende un vile baratto? Consentire ai Reali, con il loro seguito, di abbandonare Roma, a costo di consegnarla ai tedeschi, ed avere in cambio una fuga sicura verso Brindisi? Quindi, alle prime ore del 9 settembre, il Re, la Regina con la sua dama di compagnia, il principe ereditario, i generali del Consiglio della Corona, escono di nascosto da un portone secondario del Ministero per apprestarsi alla fuga. Un soldato di guardia, stenta a riconoscere il suo Re che vede abbigliato come un cacciatore. Si forma un convoglio di sessanta automobili nere che percorrono indisturbate la via Tiburtina. Navigherà pure indisturbata la nave corvetta “Baionetta” che porterà quelle Eccellenze in fuga da Ortona fino a Brindisi. Indecente la ressa al porto di Ortona. Una calca di 250 grandi ufficiali, fregiati di medaglie o camuffati in abiti borghesi; soli, o con le mogli al seguito, cercano a spintoni di salire sulla corvetta Baionetta. A tenerli a bada, un generale dello Stato Maggiore che brandisce, minaccioso, un fucile mitragliatore. Nel frattempo, a Roma, isolati reparti militari tentano di scacciare i tedeschi con un concorso di gente d’ogni età. Colpito da una raffica di mitraglia, un Capitano, prima di morire, trova la forza di gridare: “Avanti. Viva l’Italia”. Sordi a quel grido i Reali proseguono la fuga. Raggiungono Brindisi verso le 16 del 10 settembre. A quella stessa ora avviene la capitolazione dei combattenti italiani a Porta San Paolo. Per Guido Dorso la “fuga ingloriosa” del Re e di Badoglio, “per ritessere la piccola tela dell’intrigo”, è stata una occasione mancata. Nella Prefazione del 1944 alla seconda edizione di “La rivoluzione Meridionale” annota: “Se fosse esistita nel Mezzogiorno una piccola, animosa èlite rivoluzionaria che avesse proclamato la repubblica, il compromesso istituzionale, malgrado i vantaggi che i cosiddetti liberatori avevano accordato alla monarchia con l’armistizio, sarebbe stato stroncato per sempre, perché in quel momento, le popolazioni, unanimi, non agognavano che la punizione più esemplare degli artefici della loro rovina”. Invece, pensa sconfortato Dorso, si è dovuto assistere al trasformismo di “pochi politicanti di bassa lega” che “ad uno ad uno, si precipitarono a Brindisi in cerca di portafogli, e, manovrati da ex avventurieri fascisti e dal ministro della Real Casa, costituirono il governetto di Brindisi, il più oscuro dei governi che la storia abbia mai registrato”. Nel “governetto”, ritroviamo il generale Roatta, l’autore di quel segreto “pizzino”. E’ lo stesso generale che scrisse le Circolari intestate a suo nome (Circolari “Roatta”). Con la prima, nel marzo del 1942, Roatta, allora Comandante Superiore delle Forze Armate in Slovenia e Dalmazia, stabiliva “il trattamento da fare ai ribelli”: rispondere “testa per dente”, piuttosto che con la formula biblica del “dente per dente”. Ne seguirono rappresaglie, deportazioni in campi di concentramento, confische di beni, fucilazioni sommarie di partigiani e civili sospettati di solidarizzare con la Resistenza Jugoslava. Come Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, all’indomani del 25 luglio del 1943, emanava la circolare che mirava a reprimere, come pericolosa turbativa, ogni esultanza di popolo festante per la fine del fascismo di Mussolini. Ai raduni di polizia, la voce della circolare, con i toni militareschi del Generale, comandava: “Muovendo contro gruppi di individui che perturbino l’ordine pubblico si proceda in formazioni di combattimento, assumendo e mantenendo grinta dura e atteggiamento estremamente risoluto, tenendo il fucile ai pronti et non a bracciarm, aprendo fuoco a distanza, anche con mortai et artiglieria senza preavviso di sorta, come se si procedesse contro truppe nemiche”. Badoglio prevedeva furiose ritorsioni tedesche contro i militari dislocati nei vari fronti di guerra e metteva in conto la perdita di mezzo milione di uomini stanziati in zone d’oltremare. In quel mezzo milione sarebbe rientrato il sottotenente Albino di cui stiamo raccontando la storia.