Unioni civili, coscienza e politica

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La fase esplosiva del dibattito sulle unioni civili ci obbliga a tentare una serena riflessione sulle implicanze derivanti dai contenuti del ddl Cirinna’: quando auspico una serena riflessione mi riferisco anzitutto alla necessità di una corretta e percepibile informazione a tutti i cittadini, cattolici e non, e poi alla urgenza di sgombrare subito il campo della discussione da fanatismi, religiosi e ideologici. La necessità di regolamentare le unioni civili, recuperando i profili patrimoniali e successori di tali unioni, è condivisa dal mondo cattolico. E’ chiaro il nuovo corso pastorale di Papa Francesco che, comunque non scalfisce di un millimetro la sacralità e la indissolubilità del matrimonio di un credente cristiano con una credente cristiana. La stessa prudenza del Vaticano verso tutte le preannunciate manifestazioni associative contro il ddl Cirinna, conferma l’ampiezza dell’apertura pastorale di Papa Francesco verso il mondo gay. All’interno di questo ginepraio che divide sia il mondo politico che quello cattolico, un minimo di buon senso può fare chiarezza sulla dibattuta questione recuperando il contributo autorevole, affidato alle pagine di "Avvenire" della scorsa settimana, di Roberto Colombo e Cesare Mirabelli. Quest’ultimo definisce il ddl Cirinna’ un «garbuglio giuridico prima che politico» ravvisando, quindi la necessità di distinguere, all’interno delle prerogative derivanti dallo status familiare delle unioni civili, quelle tipiche del matrimonio tradizionale, da quelle previste dalla normativa sulle unioni civili – di natura patrimoniale e successoria. In sostanza le unioni civili non configurano l’equazione totale col matrimonio: lo stesso Renzi lo aveva dichiarato nel corso delle primarie vinte nel Pd. Il nodo da sciogliere, quindi, è quello di modificare il titolo I della legge Cirinna’ che invece parifica le unioni civili al matrimonio. Il «garbuglio» di cui parla Mirabelli è proprio questo segmento del testo del ddl in discussione perché, invece di risolvere il problema centrale dei figli, lo rende ancora più instabile in quanto consente addirittura l’adozione piena, tipica del matrimonio tradizionale. La stessa dibattuta questione di stepchild adoption può essere discussa soltanto dopo aver definito con chiarezza un modello di unioni civili che non configura in sé le specifiche caratteristiche del matrimonio tradizionale. Non occorre essere laici o cattolici per non accorgersi di questo garbuglio che presuppone automatismi come se le persone e le famiglie fossero congegni tecnologici a funzionamento predeterminato ed automatico. Bisogna, altresì, avverte Mirabelli «essere seri ed evitare ipocrisie» perché appare chiaro – secondo l’autorevole giurista – che nel proposto ddl, l’obiettivo è di soddisfare l’interesse dei due partner delle unioni civili di "completare" in qualche modo la loro unione solidale e affettiva con un bambino che sia considerato loro figlio. Se questo è l’obiettivo torna la barbarie della maternità surrogata, ossia dell’utero in affitto. L’attuale legislazione italiana non rende possibile questi percorsi, la legge 40 li condanna espressamente. Lo stesso lavoro dei tribunali italiani diventerebbe davvero impossibile a causa della contradditorietà dei provvedimenti legislativi del parlamento italiano. Lascio, comunque, alla coscienza dei cattolici e non, le considerazioni umane, civili, spirituali e culturali connesse alla dibattuta questione, ma una riflessione mi sia consentita: se i nostri sedicenti rappresentanti legiferano in questo modo, come possiamo ancora invocare l’esigenza di ricostruire un tessuto comunitario, umano e coeso con il connettivo di principi universali che gravitano intorno al nucleo centrale della persona umana?