“Voglio vivere così”: le donne di Aufiero, indipendenti e libere da convenzioni e pregiudizi

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E’ un inno al coraggio delle donne “Voglio vivere così…” di Gaetana Aufiero, Delta 3 edizioni. Una raccolta di racconti nati nei giorni del Covid come fughe, scherzi e capricci per riassaporare la bellezza dell’esistenza, vincitrice del premio “L’inedito-Sulle tracce di De Sanctis” promosso dalla casa editrice Delta 3. A prendere forma tra le pagine figure femminili sempre contraddistinte da indipendenza e coraggio, incapaci di sottostare a regole e convenzioni sociali ma piuttosto inclini a seguire le proprie passioni. Così la madre e moglie protagonista di “Viaggiare tra le follie del mondo” cerca un modo per dare sfogo alla sua ansia di vita, costretta come è tra le pareti della casa dalla pandemia, “solo un marito con il quale discutere e litigare” e una richiesta d’aiuto affidata ad una mail indirizzata alla figlia “Chiusa in casa da mesi, sono allo stremo delle forze. Devo uscire incontrare gli amici, le amiche, chiacchierare serena, vivere. Abbracciare i miei nipotini, litigare con voi, figli miei ma da vicino…E’ inutile che dica ‘Pazienta’. Sono stufa”…Muovermi in treno su e giù per l’Italia, spiare su monitor luminosi  e lontani coincidenze e ritardi, chiacchierare con sconosciuti, correre per non perdere coincidenze: è questo che mi manca Viaggiare, muovermi per capire, informarmi e informare”. La figlia non può ignorare quella richiesta d’aiuto, anche se è costretta a fare i conti con le preoccupazioni legate all’emergenza sanitaria e agli impegni col suo lavoro. Di qui l’idea di metterla in contatto con un’amica psicologa che sicuramente potrà aiutarla. Sarà la psicologa a consigliarle di mettere per iscritto i suoi viaggi. E così sono i ricordi a prendere vita come quel viaggio dalla stazione di Paola in Calabria alla Sicilia di Nord Ovest per ricordare la morte di Paolo Borsellino. E ancora Roma, Firenze, Bologna, fino all’incontro con Katrina, la donna che le aveva chiesto aiuto nella stazione di Trieste e aveva voluto raccontarle la sua storia, la sua città distrutta, i figli e il marito ucciso e la fuga in Italia per dimenticare, la vita da mendicante, il sogno di una casa. “Ora posso confessarglielo. Con le sue note mi ha restituito i colori della vita” le confesserà la psicologa e sarà lei a chiedere aiuto a Sara, fino a farle sorgere qualche dubbio su quella donna che si dice pronta ad ascoltarla.

Sono donne, quelle della Aufiero, disobbedienti e combattive, come la protagonista  di “La Singer no” che si ostina a non voler imparare ad usare quella macchina da cucire acquistatale dal padre che le appare simbolo di una vita domestica, così lontana dal mondo dell’arte a cui vorrebbe dedicarsi “Io, sdegnata, rifiutai drasticamente di mettermi accanto a quel moderno strumento donnesco come in seguito feci anche con il ricamo e il cucito a scuola nell’ora di economia- Aghi e fili non erano per me. Mi piaceva solo leggere, scrivere e studiare per divenire, come avevo deciso, una grande artista”. Una bambina difficile, decisa a vivere libera in un’Avellino ferita a morte dai bombardamenti, tra case da dividere con gli sfollati, biciclette su cui andare in giro di nascosto per vivere nuove avventure, sfidando i bambini delle altre contrade. Eppure quella macchina Singer sarebbe tornata più volte nella sua vita, a partire dal progetto a sostegno delle donne dell’Africa per insegnare loro un mestiere e solo più tardi avrebbe capito il senso di quel dono fattole dal padre “segnò simbolicamente per mio padre e per tanti come lui la fine della guerra, quando le industrie che avevano convertito la loro produzione di pace per dedicarsi totalmente a quella bellica ripresero a produrre non più strumenti di morte ma di vita”….Una macchina che racconta di una generazione “che la guerra voleva dimenticarla per consentire ai suoi figli di vivere in pace”. Una macchina che parla con forza anche al presente in cui l’incubo della guerra è tornato.

Sono donne, al tempo stesso, che non hanno paura di confrontarsi con l’altro da sé, che abbiano il volto dei cingalesi approdati in Toscana per lavorare nei vigneti o dei contadini  e contadine dei poderi dell’alta Maremma, come accade in “Un week end tra i monti”. Basteranno una vacanza trascorsa nella terra d’origine del marito  e l’incontro con personaggi come le zie Umiliana e Irene perché la protagonista si innamori della Toscana e dei suoi misteri “Da quelle scarfine e dal loro Carlo Magno è nato in me l’amore per quella terra, per le sue donne sorprendenti con i loro nomi dal sapore antico, per le sue erbe magiche e i suoi cavalieri le cui tracce ho trovato ovunque lungo le strade e nelle grotte, anche quelle dei leggendari templari che vi hanno lasciato un segno incancellabile”.

Proprio in quella terra la sua storia si era incrociata con altre storie, con quella delle donne delle Macchie dalle vite sorprendenti, molte di loro avevano vissuto, ad esempio, a Napoli come governanti in case signorili. Storie di coraggio e lotta come quelle delle rivolte contadine, legate alla figura di Davide Lazzaretti e del movimento che predicava la cultura della non violenza, a consegnarle donne come Assunta, ultima custode della Società della Santa Lega fondata dal Cristo dell’Amiata per portare conforto alle famiglie in difficoltà “I nostri omini scendevano giù nella bassa Maremma per lavorare e morivano, accettavano di lavorare nelle miniere di mercurio e prendevano la silicosi. Solo il santo Davide ha cercato di aiutarci”. Anche il nonno del suo Davide, scoprirà, era stato tra i seguaci di Allegretti.

Ma sono anche donne fortemente attaccate alle radici come accade all’architetto Nina De Mari di “Donne tra passato e futuro”, decisa a far rivivere quel casale di famiglia, dove aveva vissuto la sua famiglia, i Fortunato, all’avanguardia nello studio della vite. A guidarla determinazione e volontà “nu masculo vestuto e cauzato”, tanto da mettere in crisi gli addetti dell’ufficio comunale che avevano inutilmente cercato discendenti della famgilia. Dopo la morte di Ennio che aveva voluto vivere stabilmente lì con la moglie e i figli, tutta la famiglia era scomparsa, i vigneti venduti. Erano sopravvissuti solo il borgo e la vecchia casa che rischiava di essere travolta da una colata di cemento, facendo scomparire la storia di una comunità contadina del Sud, capace di coniugare tradizione e innovazione. Una storia, quella di Nina, ultima discendente dei Fortunato, che si intreccia con quella della madre Serena, arrivata in quel casale con la sua bambina dal mare, da tanti considerata un’intrusa, una straniera, con le sue malinconie senza fine, l’impressione che quei monti le tolgano il respiro e che ad inchiodarla lì sia proprio sua figlia, quella figlia del peccato, concepita prima del matrimonio, quasi un segreto che non può essere rivelato. “E’ a volta il suo mare che ritorna a lei, che la richiama con lo sciabordio delle sue onde, con il fuoco che nasconde. Dal terrazzo dal quale si affaccia per cercarne almeno il riflesso, nessuno spiraglio. Monti solo monti, ovunque…Solo attimi, quasi una vertigine durante la quale vorrebbe fuggire, abbandonare marito e figlia, tornare indietro nella contrada delle fate a tirare pietre sulla superficie del mare”. Aufiero ci racconta quanto sia difficile, oggi come ieri – impossibile non cogliere i tanti elementi autobiografici presenti nel volume –  essere donne, mogli, madri, costrette a conciliare le proprie passioni con i doveri di cura, le proprie inclinazioni con le proprie responsablità familiari ma anche il lungo percorso dell’emancipazione fatto di ribellioni e battaglie fino alla conquista della libertà, che è innanzittitto la possibilità di scegliere ed essere padrone della propria vita. Una libertà di cui la scrittura è tra le espressioni più belle