Appello al popolo del Sud

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Di Gianni Festa

Ci sarà un’alba nuova per il Mezzogiorno? Dipende dalla classe dirigente meridionale. Il governo dice di metterci la faccia. Il “decreto Caivano”, nel bene e nel male, ne è prova. Ma non basta. Le decisioni devono camminare sulle gambe degli uomini, come auspicavano Pietro Nenni, Giovanni Falcone e tanti altri autorevoli personaggi dell’italica storia, abituati a riflettere sul come far camminare i processi evolutivi. Ed è qui il punto. Chi sono oggi gli uomini del Mezzogiorno su cui fa carico il procedere nell’attuazione delle decisioni per una auspicata modernizzazione? Se il riferimento è alla storia trascorsa del meridionalismo del fare, il bilancio è negativo. Bisogna ricorrere agli intellettuali vissuti tra l’Ottocento e il Novecento per rintracciare appelli finalizzati a descrivere le condizioni di emarginazione del Sud dal resto del Paese. Come è ovvio, però, quel tipo di meridionalismo, sebbene muovesse da una base ideale, non è mai riuscito a produrre risultati concreti. Anche le ultime analisi sulle condizioni del Mezzogiorno fatte da autorevoli saggisti si fermano, purtroppo, ad una stanca lamentazione del presente. E allora perchè è così difficile coniugare il desiderio del riscatto meridionale con la buona concretezza del fare? La radice del male è nell’incapacità di gestire i tanti fondi messi a disposizione dalle Istituzioni europee e nazionale. Il caso Mezzogiorno, quindi, non è solo per mancanza di fondi, ma per l’uso distorto che di essi se ne fa. Lo ammoniva già negli anni Venti il nostro Guido Dorso denunciando trasformismo e clientelismo della classe dirigente del Sud. Oggi siamo di fronte ad una straordinaria occasione storica, addirittura più significativa di quella che nel post fascismo maturò con l’intervento della Cassa per il Mezzogiorno. In quel periodo (anni cinquanta-sessanta) il Sud conobbe un inaspettato rinascimento. La politica delle infrastrutture segnò la prima e importante fase di rottura dell’isolamento meridionale dal resto del Paese. Strade, dighe e speciali altre importanti opere misero in moto un processo di ammodernamento finalizzato alla crescita economica civile e sociale.

I “capitani” di quella stagione furono De Gasperi, Campili, Pescatore, Vanoni ed altre personalità dal profilo altamente morale. Poi la malanotte. La Cassa cadde nelle mani di una classe politica miope che la trasformò in una gettoniera fino a scomparire sotto l’incalzare di un dannoso e becero clientelismo. Gli anni successivi certificarono il fallimento di una politica per il Mezzogiorno, contro ogni auspicio di rinascita sognato da Manlio Rossi Doria, Gramsci, Dorso, Nitti, Scotellaro e così via. Il tempo del Sud degli anni successivi è stato quello dei masterplan. Da Berlusconi a Letta il Sud ha vissuto di promesse, di latitanze nel dibattito socio-politico di esponenti meridionali, nelle sedi di decisione parlamentari. Di restituzione di fondi per incapacità di progetti da finanziare. E oggi? L’emergenza criminalità ha riacceso i fari sul Sud. Il caso Caivano ha fatto da detonatore. Si sono scarnificati i problemi, fra tutti quello della criminalità minorile, motivo di ostacolo per ogni ipotesi di riscatto sociale, e di nascita di una nuova classe dirigente. I fondi, ripeto, non mancano: risorse ordinarie europee, Pnrr, fondi di coesione per un’unica Zes nel Sud, ecc. L’alba nuova sembrerebbe rendere possibile il cambiamento. Ma su quali gambe deve avvenire? Il nodo è tutto qui.

L’attuale classe dirigente meridionale è trasformista e clientelare, è parolaia e appartenente per interessi, divisa nel Sud. Manca di visione e di progetto. E’ lamentosa e in grado di piccole rivolte. Spetta allora al popolo meridionale prendere atto che dal fallimento si può, e si deve uscire attraverso una presa di coscienza necessaria per sconfiggere il male, e con meccanismi virtuosi selezionare una nuova classe dirigente di alto profilo morale, competente e soprattutto orgogliosa di un Mezzogiorno nell’Italia unita.