Cinema e cultura postmoderna

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Una domanda ci coinvolge particolarmente in questo periodo che attraversiamo, in cui più labile è diventato il confine della vita. Perché?… Perché la morte? E il più delle volte i nostri dubbi irrisolti sono espressi in una poesia, un romanzo…un film. Perciò vorrei trattare il bellissimo film cult Blade Runner, nel cui sviluppo tematico vengono toccati significativi risvolti, esistenziali e psicologici, dei nostri stessi interrogativi: quelli di sempre.
Blade Runner, Regia di Ridley Scott, 1982; (II:1992);
(dal romanzo ‘Il cacciatore di androidi’ di Philip K. Dick, 1968)
Film bellissimo, ricco di aspetti postmoderni e di contrasti, tipo degrado e alta tecnologia, affollamento e solitudine… Spettacolare l’ambientazione. Uno spazio-tempo ipotetico, globalizzato e caotico: qua… auto volanti, là… un cumulo di baracche.. venditori ambulanti; ricchezza e accozzaglia… oggettistica; e ovunque, fluttua una realtà sociale multietnica, babelica, non fusa, non omologata. Accostamento di opposti che costituiscono il lato postmoderno del film, così come i temi derivanti dal passato (la ricerca e la ribellione al ‘padre’, l’accecamento), la compresenza di simbologie molteplici (occhi, scacchi,origami,torri, pioggia, notte, colomba…), la ‘fusione’ uomo-androide… E una ricorrente sollecitazione inconscia, in un’atmosfera tutta carica di risonanze perturbanti, che passano dalla trama allo spettatore.
Magnifica l’apertura del film su un’affascinante visione notturna di una megalopoli, vista dall’alto in grandangolare: un immane formicolio di luci, sovrastato da un cielo nero percorso da navicelle, con infernali fiammate sparate da ciminiere enormi, che sembrano lanciare una sfida di onnipotenza… Anche per le vie tutto è smisurato: immensi grattacieli… gigantografie luminose: mentre sul lucido asfalto delle strade non cessa di battere una pesante pioggia, degna della Divina Commedia. Ridley Scott è stato definito ‘regista del bagnato’, perché la pioggia è il suo elemento naturale. Le strade umide, il cielo nero, la scivolosità infida trasmettono l’idea di un mondo sporco e appiccicoso. Intanto, una colonna sonora esotica crea un ulteriore effetto di suspence e di spaesamento. E mai, per tutta la durata del film, che compaia la luce del giorno, solo fasci di luce artificiale che a volte filtrano da alte vetrate verso interni disabitati, a evocare nello spettatore un senso di abbandono e solitudine.
Protagonisti sono quattro androidi di ultima generazione fuggiti dalle colonie extraplanetarie in cui erano utilizzati come schiavi: tra loro il più bello e più ‘umano’, Roy (Rutger Hauer), sarà l’ultimo a venir meno. Stanno per scadere i quattro anni di vita previsti per loro. Tornati sulla terra in cerca dello scienziato ‘padre’ per reclamare un sovrappiù di vita, costituiscono una minaccia e vanno eliminati. Chiaro il loro valore simbolico e universale. Ma il dato doloroso della loro condizione è che sono perfettamente simili agli uomini, anche psicologicamente: sono prodotti ibridati, hanno corpi artificiali in cui sono stati trapiantati dei neuroni umani, per cui hanno dei veri sentimenti, soffrono, amano, sognano…. e desiderano vivere! Chi sarà mai uno scienziato per stabilire chi abbia diritto alla vita e chi no? E’ sottintesa questa implicita domanda. E con quale arbitrio lui può decidere a chi assegnare un’anima e a chi no? E perché un androide dovrà vivere solo quattro anni, mentre un uomo ottanta? Da tutta la problematica filmica sorge l’interrogativo di fondo, quello che noi stessi ci siamo posto da sempre: perché la morte? Perché non una vita di mille anni, diecimila anni, o eterna? Perciò da tale angosciante desiderio è nata nei quattro replicanti una specie di tracotanza, o ‘ybris’da tragedia greca, che li ha spinti a tornare sulla Terra a reclamare dalla scienza esatta degli uomini il diritto a vivere. Sono fortissimi e intelligentissimi. E qualcuno di loro,Roy, di bellezza divina, riflette il culto del corpo del nostro tempo ed attira anche per questo la solidarietà dello spettatore.
E’ per una sorta di ambiguità su dove sia il giusto, e dove no, che lo svolgimento segue due diverse angolazioni: una oggettiva, della ‘normalità’, focalizzata sul blade runner Rick, il poliziotto antagonista, un solitario e introverso Harrison Ford, e l’altra obliqua, scaturita dagli uomini-robot, onde gettare un fascio di luce straniante e critica sulla presunta ‘normalità’ del loro dover morire. Che ci siano sentimenti e si provi dolore non interessa agli uomini! (Fuori di metafora, diciamo pure agli dei…a dio…) E perciò la ‘giusta’ punizione raggiungerà lo scienziato-creatore, l’odiosamato ‘padre’, per mano dei suoi stessi ‘figli’, specificamente Roy, mediante schiacciamento ed estrazione degli occhi: non casualmente l’organo della vista simboleggia la ragione! e richiama l’autoaccecamento del colpevole Edipo sofocleo. L’occhio, anche specchio dell’anima: ma l’anima di uno scienziato è fredda e corrotta.
Tuttavia, non ci sarà salvezza per i quattro umanoidi, ed essi saranno sterminati uno ad uno…. Eppure, imprevedibilmente grandeggia in punto di morte l’ultimo di loro: a un passo dalla fine, innalza un inno nobilissimo alla vita e dà senso al suo breve vivere e ingiusto morire, salvando dalla morte l’umano che gli ha dato la caccia. Non ha mai amato tanto la vita da amarla persino nel suo rivale! La ‘pietas’ ormai brilla nell’animo di una macchina troppo umana! E capiamo che la situazione è estrema, paradossale, al punto che uomo e androide possono scambiarsi i ruoli nel mondo! Così, raccogliendo le ultime energie, il Nexus 6 di nome Roy si ripiegherà su se stesso alludendo al nulla che è al di là del limite, lamentando che la Vita e il Bello si dissolveranno per sempre con lui: ‘Io ne ho viste di cose che voi umani non potreste mai immaginare… Navi da combattimento in fiamme al largo dei Bastioni di Orione… e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser… E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo… come lacrime nella pioggia. E’ tempo di morire’ . E, chinato il capo, muore sotto la fitta pioggia incessante che tutto copre e nasconde, mentre una bianca, simbolica colomba si alza in volo dalle sue mani e scompare… Un finale indubbiamente strepitoso, da Apocalisse, anche se nessuno di noi ha idea di che cosa siano i Bastioni di Orione e tutto il resto… Ma la fantasia di quelle visioni destinate a dissolversi si scolpisce in noi, e ci emoziona, anche grazie, forse, a un percorso abilissimo di estetizzazione scenica.
Abbiamo trascurato, per non sottrarre intensità al tema vita-morte, una linea collaterale, l’amore: una delicata e sensibile donna-androide, talmente perfetta come risultato scientifico da non sapere lei stessa di non essere una vera donna (quindi ricca di storia personale e familiare, ma tutta prodotta in laboratorio), è salvata da Rick. Lui l’ama tanto da fuggire con lei. Almeno, così lascia supporre il finale ‘aperto’. E lo spettatore potrà tirare un sospiro di sollievo, perché con l’immaginazione trarrà le conseguenze: Rick ha trovato, grazie all’amore, la sua capacità di scelta e quindi la volontà di trasgredire. E questo finale ‘funziona’ alla grande dal punto di vista cinematografico.
Forse, se non abbiamo visto questo film, non sarà il caso di guardarlo? E l’aspetto postmoderno non promette delle emozioni estetiche eccezionali?

Gina Ascolese