Così fu scoperta la verità sul delitto Giuliano

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Tommaso Besozzi fu il primo a mettere in discussione la versione ufficiale fornita sulla morte del bandito

 

L’ unica cosa certa e’ che è morto. Questo il titolo del reportage scoop dell Europeo sulla vera storia di Salvatore Giuliano, il bandito di Montelepre, ucciso nel luglio del 1950. A firmarla colui che viene ritenuto il più grande giornalista investigativo del Dopoguerra, Tommaso Besozzi, il primo a mettere in discussione la versione ufficiale fornita sulla morte del bandito finito alla ribalta Delle cronache mondiali per le sue imprese criminali e per la sua banda. Se Giuliano e’ famoso per il crimine compiuto il 1 agosto del 1947, la strage di Portella Delle Ginestre, Besozzi e invece sconosciuto al grande pubblico. Basterebbe dire che tra i suoi allievi c’è stato Enzo Biagi per rendere la caratura del personaggio. Anche se ci sono voluti sessant’anni per recuperare dall’ oblio editoriale in cui era finito, il libro che aveva dedicato proprio al "re di Montelepre": la vera storia del bandito Giuliano. Non quella istituzionale, ma il frutto di una vera e propria radiografia del "fenomeno Giuliano " realizzata dal cronista. Quello che emerge e’ un vero e proprio affresco della Sicilia del Dopoguerra e il volto di un personaggio ancora oggi controverso. La domanda di fondo nelle pagine dell’ opera recuperata dal biografo di Besozzi, Enrico Mannucci e pubblicata nella collana Banditi Senza Tempo della Milieu edizioni e’ semplice: chi era Salvatore Giuliano? Un personaggio alla Robin Hood, come tanto per lungo tempo hanno creduto, un feroce criminale o una specie di giustiziere a favore degli oppressi? Per Besozzi nessuna di queste descrizioni poteva essere la didascalia della foto del brigante, ma come aveva raccontato la stessa madre di Giuliano a Montelepre non era stato altro che uno "sventurato e disperato picciotto" . Due destini incrociati, scrive Mannucci, quello del giornalista e quello del brigante più famoso della storia, che sul monte Sagana riceveva giornalisti e soprattutto giornaliste (con molte delle quali avrà anche delle storie d’amore ndr) da ogni parte del mondo.Scrive nella prefazione al libro Ferruccio De Bortoli: «Besozzi smontò la goffa verità ufficiale sulla fine del bandito di Montelepre e consentì di capire meglio i legami tra la mafia non solo siciliana — che si sbarazzò dell’ormai scomodo Turiddu — la politica e diversi apparati dello Stato. Ma non si limitò solo a questo, che sarebbe già stato molto». Ma qual è la goffa verità nella vicenda di «Turiddu» Giuliano? La versione ufficiale fornita dai Carabinieri sulla fine del bandito. Per comprenderlo bisogna partire dalla fine. Dalla notte «infame» di Castelvetrano, sì, proprio nel paese oggi noto per la primula rossa della mafia Matteo Messina Denaro, nella notte tra il 4 e il 5 agosto del 1950 finì dopo circa sette anni la storia criminale di Salvatore Giuliano. Tutto avvenne in Via Mannone, nel cortile di casa dell’avvocato Gregorio De Maria scriveranno nel loro verbale i Carabinieri, accreditando la storia di un inseguimento avvenuto tra Via Cagini e Via Mannone, dove Giuliano avrebbe ingaggiato un conflitto a fuoco con i militari. L’immagine del bandito in cannottiera sporca di sangue, a terra carponi è ormai entrata nell’immaginario collettivo, come pure quel tradimento consumato dall’unica persona di cui il bandito si fidava, quel Gaspare Pisciotta che sarebbe stato ucciso in carcere con la stricnina nel caffè. Ma scoprirlo in quelle ore fu un atto di storia del giornalismo, quello realizzato proprio da Besozzi.  Il giornalista parte dalla sera prima, quando Pisciotta decide di tradire il cugino e chiude la trattativa con il gruppo speciale inviato dal ministro Scelba per stanare la banda di Turiddu. Pisciotta raggiunge Castelvetrano e l’abitazione dell’avvocato De Maria. Qui, prima usa del narcotico nel caffè del cugino per stordirlo e fingendo di russare, a piedi nudi e durante la notte si introduce nella camera vicino alla sua e spara due colpi a bruciapelo a Giuliano. Il primo, nonostante avesse mirato alla nuca finisce sulla spalla, il secondo alla nuca. Giuliano muore nel sonno. Pisciotta, scrive Besozzi, fugge a piedi nudi e con il pigiama dalla casa per raggiungere una millecento dei carabinieri che era già appostata nei dintorni e che lo condurrà a Palermo. La versione ufficiale invece, «per coprire i confidenti» era stata questa: «A Castelvetrano alle 3:15 del 5 luglio, il capitano Perenze, il brigadiere Catalano e i carabinieri Renzi e Giuffrida avevano riconosciuto il capobanda mentre assieme a uno dei suopi uomini percorreva la Via Cagini. Vistisi sorpresi i due si erano dati alla fuga in direzioni diverse e il gregario era riuscito facilmente a dileguarsi. Giuliano invece era stato inseguito per le vie della città. Contro di lui era stato fatto fuoco ripetutamente, un proiettile lo aveva raggiunto alla spalla, il fuggitivo aveva risposto a sua volta con pistola e mitra. Giunto in Via Mannone si era rifugiato all’interno del cortile e aveva tentato di scavalcare un muro. Ma il capitano gli aveva esploso contro una raffica di mitra, uccidendolo». Una versione che il cronista ha modo di fugare in due diversi aspetti. Il primo raccogliendo le testimonianze dei vicini di casa dei De Maria. C’è chi aveva sentito rumori e visto i carabinieri in zona sin dalle ventidue, chi, come i panettieri del vicino forno Lo Bello a mezzanotte erano usciti per una boccata d’aria ed erano stati invitati dai Carabinieri a fare rientro subito. Un dato è certo: quella notte a Castelvetrano c’era un caldo torrido e nessuno tra Via Cagini e Via Mannone, un tragitto di due chilometri, aveva sentito esplodere un colpo. Considerate che tanti dormivano con le finestre aperte e che nella versione ufficiale Giuliano prima di morire avrebbe esploso almeno cinquanta colpi, queste iniziavano già ad essere delle discrepanze importanti. E quelle voci raccolte sulla strana presenza in casa dell’avvocato di Castelvetrano, tutti pensavano ad un  cugino dell’avvocato De Maria, che qualche giorno prima litigava con la domestica per il costo di un cavolfiore, troppo caro e che in quei giorni invece spediva la sua domestica a fare spesa di cibo pregiato almeno tre volte al giorno. Era Giuliano il cugino misterioso di Via Mannone. Era lui che ogni giorno si faceva comprare una pila di rotocalchi e giornali?  E poi le domande sulla posizione del cadavere: « Perchè Giuliano non aveva un soldo addosso? Perché portava una semplice canottiera, lui così ambizioso e, a suo modo, elegante? Perché non aveva l’orologio al polso, quel grosso cronometro d’oro per il quale aveva una bambinesca affezione e che, lo hanno testimoniato in molti, era l’unica cosa che si togliesse, coricandosi, la prima che cercasse al risveglio? Alcune ferite, specie quella sotto l’ascella destra, sembravano tumefatte come se risalissero a qualche tempo prima, altre erano a contorni nitidi e apparivano più fresche. Due o tre pallottole lo avevano raggiunto al fianco e avevano prodotto quei fori grandi a contorni irregolari tipici dei colpi sparati a bruciapelo; altre erano entrate nella carne lasciando un forellino minuscolo perfettamente rotondo. Il tessuto della canottiera appariva intriso di sangue dal fianco alla metà della schiena, e sotto quella grossa macchia, non c’erano ferite. Era logico pensare che il corpo del bandito anziché bocconi fosse rimasto per qualche tempo in posizione supina, perché tutto quel sangue doveva essere sgorgato dalle ferite sotto l’ascella e certamente era sceso, non poteva essere andato in su». Tutto questo, ma anche una serie di aneddoti, dalla marcia su Palermo dei separatisti, compresa la banda di Giuliano, fino al rapporto con la mafia e il baronato e all’immagine di Giuliano che piange durante un comizio del partito monarchico, paragonandosi per sventura al re.