Giustizia e dintorni: Zancheddu, come può un innocente rimanere in carcere per 32 anni?

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Siamo nel 1991 e da qualche giorno è passata la Befana. Si sa, l’Epifania tutte le feste porta via. Beniamino Zancheddu, pastore di Sinnai, comune del cagliaritano, avrebbe potuto comprendere che la sua calza brulicava di carbone. Ma mai e poi mai avrebbe immaginato che quella stessa Befana, anziché le feste, gli avrebbe portato via la libertà e, con essa, la vita.

Sulle montagne di Sinnai vengono trucidati tre uomini. Il quarto rimane in vita per miracolo e immediatamente dichiara di non aver potuto riconoscere l’omicida perché il suo volto era coperto con una calza nera.

Dopo un mese e mezzo (un mese e mezzo) il miracolo: chi ha sparato aveva il volto scoperto e le sembianze di Beniamino Zancheddu, sostiene lo stesso Luigi Pinna contrariamente a quanto subito detto. Aveva visto bene. Aveva visto lungo. Soprattutto aveva visto ciò che gli avevano voluto far vedere.

Il miracolo, infatti, più che dalle fontane di Lourdes, proveniva – secondo le successive intercettazioni e la stessa deposizione resa nel giudizio di revisione oggi in corso, a distanza di 32 anni – dalle capacità investigative di un (ex) sovrintendente di Polizia che lo additava al testimone come colui che aveva fatto fuoco.

Innocente. Cioè estraneo totalmente all’accaduto. Perché innocente. Ossia, ignaro anche che il fatto si fosse verificato. In una parola innocente. Epperò in galera da 32 anni.

Come può un uomo, così innocente, essere condannato al carcere a vita ed ivi rimanervi per 32 anni?

Forse perché siamo costretti a declinare la sua innocenza in 3 o 4 forme diverse? Come se esista “il più” ed “il meno” innocente. Come se l’innocenza possa essere equiparata alla “non colpevolezza” e, dunque, l’innocente al “non colpevole”.

Chi è innocente lo è, e basta! Chi non c’entra, non c’entra. D’altronde, non c’era.

L’errore? Beh certo. Categoria paracadute nella quale un giudice può affogare le distanze tra il proprio modo di vedere e di agire e l’Ordinamento, le regole, il codice, il buon senso e, su tutto, il dubbio.

L’errore, certo. Un buon modo di pensare e di vivere, sempreché riguardi gli altri. L’errore, assolutamente. Umano? Se non un tappeto sotto il quale buttare la polvere.

Perché vedete, una condanna a tutti i costi annovera certamente l’errore. È inevitabile. Ma quando si tratta di libertà personale, l’equazione dovrebbe esattamente inversa: nessun errore!

E invece siamo costretti ad ascoltare la più misera tra le miserie, quella di pensare (e alcune volte addirittura sostenere) che il sistema prevede il rimedio, l’appello, il ricorso, l’impugnazione.

Perché così ragionando, l’errore non viene eliminato o evitato o ridotto. Semplicemente si perpetua, con il perpetuarsi di questa blasfemia: “c’è un altro dopo di me”, così implicitamente ammettendo – anche, e prima di tutto, con sé stessi – come la decisione sia errata.

Per ciò, proprio per questo, ci siamo dotati di un sistema fondato sul contraddittorio, sul confronto tra due versioni, se non tre o quattro e, per questa via, sull’ascolto.

Per evitare che tutto si riduca ad un lancio di dadi, dove il giudice, pacificamente onnisciente, sapendo di sapere, pensando di conoscere, ed avendo già deciso, cada naturalmente nell’errore.

Sulla convinzione che è la migliore convinzione e che lui, giudice, non avrebbe potuto fare di meglio. Tanto ci sarà qualcuno che può rimediare, dopo di lui. Sempreché questo qualcuno non la pensi come lui…

Anche nel caso di Zancheddu sarebbe bastato ascoltare, ritengo. Sarebbe stato sufficiente seguire le regole, tutte, anche e soprattutto quelle in materia probatoria, senza forzarle o addirittura capovolgerle.

Le regole sono la stratificazione dell’esperienza in materia di errore, poste, dunque, in futuro, per evitare l’errore.

E ci mancherebbe. Oggi, però, la regola è interpretare la regola, per riscriverla. Ecco l’errore. Che genera errore e che, in quanto tale, così fabbricato, non può più essere solo errore, perché colpisce la libertà e la vita delle persone.

Come il dubbio, d’altro canto, parte necessaria di ogni giudizio, presidio della decisione giusta, che deve evitare l’errore, per non privare della libertà gli innocenti, e che oggi, invece, rimane confinato sulle pagine di un bel libro, se non di un ottimo manuale.

Sarebbe sufficiente ricordare che la società, anzi una società non primitiva, può tollerare un colpevole libero, giammai un innocente in cella. Ma, purtroppo, meglio l’errore.

Come nel caso di Zancheddu, per il quale il testimone oculare nell’immediatezza sosteneva di aver visto l’assassino con una calza in testa e dopo un mese e mezzo di averlo potuto riconoscere.

Sarà successo qualcosa? Infatti. Un miracolo, come minimo. Alla luce anche delle altre testimonianze raccolte nel processo che lo volevano, negli stessi attimi, in luoghi molto lontani da quelli in cui accadeva l’omicidio e che, in quanto contrastanti con il proprio libero convincimento venivano scartate, perché non credibili – al pari, incessantemente nell’intimo del convincimento, dell’imputato e del suo difensore che le avevano prodotte – e perché, in ogni caso, opposte al miracolo che, al contrario, avrebbe consentito, dando libero sfogo al proprio convincimento, di trovare l’assassino e fare giustizia.

Beh certo. Se c’è ancora chi pretende di sovrapporre la colpa al dolo, il “non volere” al volere – un furto non potrà mai essere commesso non volendolo – figuriamoci se non possa albergare l’errore nell’interpretazione di chi rifugge dal contraddittorio, perché onnisciente, anzi fornito del libero potere di essere libero di convincersi, liberamente.

Un lancio di dadi, più che un giudizio fondato su regole certe e sul buon senso. A partire dalla prima: il rispetto delle regole.

Non è un caso, allora, che si parli tanto del bello che è nella certezza, ignorando la bellezza più sottile che c’è nel dubbio.

Credere…che monotonia!

Gerardo Di Martino