Il declino del welfare e la Cina 

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1916

Il declino progressivo dello stato sociale italiano appare irreversibile. E’ la diretta conseguenza di una globalizzazione selvaggia che non conosce diritti, in nome di una concorrenza mondiale senza regole e con l’utilizzazione di manodopera cinese, e non solo, a costo vicino allo zero. A soccombere sono i lavoratore sindacalizzati, sempre più indifesi ai quali vengono sottratti diritti acquisiti. La crescente marginalizzazione e precarizzazione ed una drastica diminuzione del salario hanno relegato il lavoro ad utilità trascurabile. Eppure il lavoro, protetto ed equamente retribuito
A soccombere sono i lavoratore sindacalizzati, sempre più indifesi ai quali vengono sottratti diritti acquisiti. La crescente marginalizzazione e precarizzazione ed una drastica diminuzione del salario hanno relegato il lavoro ad utilità trascurabile. Eppure il lavoro, protetto ed equamente retribuito, per opera di decennali battaglie anche con il sacrificio della vita e rappresentato da sindacati coraggiosi, ha costituito, in Italia, il volano dello sviluppo e della crescita e conseguentemente dell’aumento dello stato sociale. Il miracolo italiano, senza il contributo decisivo dei lavoratori che i sono spostati in massa dal sud, abbandonando le campagne e convertendosi a nuove attività, non ci sarebbe stato. Per la Costituzione la nostra democrazia è fondata sul lavoro (art. 1) con garanzie costituzionalmente tutelate (artt. 35 e 36). La difesa del lavoro ha conseguentemente portato ad una crescente tutela previdenziale nella considerazione che le indennità di pensione, disoccupazione, malattia, fossero da ritenere salario differito. La difesa del lavoro e la garanzia del salario è stata così alta, nel corso del secolo scorso, da far dire ad un grande sindacalista come Luciano Lama della CGIL, alla fine degli anni settanta, che il salario fosse da considerare una “variabile indipendente”. Oggi sarebbe giudicata una bestemmia. L’assicurazione previdenziale obbligatoria è del 1919. Da allora si sono fatti passi da giganti e lo stato sociale italiano ha raggiunto risultati sorprendenti che lo hanno collocato tra i primi nel mondo, di molto superiori – per esempio- a quello americano. Nel 1978 il SSN (servizio sanitario nazionale) superò le Mutue garantendo un trattamento uguale per tutti. Fu istituita la pensione di anzianità alla quale potevano accedere tutti i lavoratori con 35 anni di contributi a prescindere dall’età che, comunque, per le pensioni di vecchiaia era fissata a 60 anni per gli uomini e 55 per le donne (salvo per le categorie degli autonomi – artigiani, commercianti e coltivatori diretti sorte dopo il 1950 e ancora povere – con 60 e 65 anni). La pensione di invalidità garantiva i lavoratori che contraevano una malattia invalidante e quella di reversibilità le vedove. Per molti anni la Previdenza sociale ha svolto una funzione di ammortizzatore sociale, specie nel sud per la atavica mancanza di lavoro, perché la pensione di invalidità, per molti anni, era basata sulla riduzione della capacità di guadagno e quindi anche con riflessi per un’occupazione possibile. La disoccupazione e la Cassa integrazione guadagni ha tutelato lavoratori e imprenditori. Le pensioni erano rapportate ad un trattamento minimo con una integrazione sociale cui doveva farsi carico lo Stato. Sulla Previdenza sono stati anche scaricati oneri impropri come i moltissimi prepensionamenti (con età e contributi inferiori alla norma) per favorire le ristrutturazioni aziendali. Il sistema ha retto egregiamente fino a quando la gestione dei lavoratori dipendenti è stata attiva, poi si sono verificate le prime crepe e si è cominciato a correre ai ripari con la riforma Dini del 1995 che ha abolito il sistema del calcolo retributivo, con una progressiva e doverosa messa a regime del quale oggi si parla tanto a vanvera confondendola con i privilegi soprattutto da parte di quelli che di privilegi hanno campato finora e continuano a farlo. Di giornalisti come Giordano, che ne è una maschera vistosa e caricaturale, la televisione è piena. Poi è venuta la frana: dalla riforma Maroni a quella, ultima, lacrime e sangue della Fornero. Il risultato è che oggi l’Italia ha l’età più alta per godere della pensione che è legata alle aspettative di vita e viaggia sui settant’anni; che la disoccupazione copre periodi sempre meno lunghi e la Cassa integrazione non svolge più il suo ruolo originario e, in una società liberista nella quale si riducono le entrate e si parla di flat tax, il ruolo della previdenza e dell’assistenza pubblica viene sempre più confinata nella beneficenza privata come si faceva con le dame dei misericordia del settecento. Tutto è cominciato, naturalmente e con l’apporto, non secondario della sinistra, con il limitare e togliere diritti ai lavoratori confinandoli ad una irreversibile marginalizzazione, prima con il famigerato “pacchetto Treu” che pure era un ministro della Margherita, e poi con Berlusconi e Tremonti, fino a Renzi, lo “statista di Rignano”, con l’abolizione dell’art, 18 sul licenziamento per giusta causa, le decine di tipologie di lavoro con pochissima garanzia previdenziale, e il contratto di lavoro a tutele progressive che è un licenziamento libero anche nei contratti a tempo indeterminato soggetti solo ad una indennità economica in base agli anni di lavoro. Fino a quando la sinistra non si riapproprierà dei suoi valori costitutivi e lo Stato nazionale – in assenza di una governance internazionale sulla globalizzazione – non ne regolerà gli effetti dirompenti, si assisterà ad una definitiva scomparsa del Welfare in un prossimo abbastanza prossimo.

di Nino Lanzetta