Il fallimento dei demiurghi

0
937

 

Le elezioni amministrative quest’anno si sono caricate di un forte significato politico perché riguardavano le sfide aperte nella principali città italiane, Milano, Torino, Roma e Napoli, secondo linee di frattura e di ricomposizione politica non omogenee sul piano nazionale. Se a Napoli è stata consolidata un’esperienza politica nata al di fuori ed in contrapposizione con le principali forze politiche organizzate, vecchie e nuove, a Milano una coalizione di centrosinistra. In discontinuità con la giunta Pisapia perché contaminata da una forte torsione a destra, si è affermata di stretta misura nel ballottaggio, grazie all’appoggio determinante di una sinistra non omologata alle politiche centriste. Se a Roma l’affermazione del Movimento 5 Stelle è stata agevolata dal degrado della città dovuta alle pessime prove che hanno fatto le amministrazioni di centrodestra e di centrosinistra, a Torino, la vittoria della giovanissima candidata del Movimento ha marcato una severa sconfitta di un ceto politico che non aveva demeritato sul piano puramente amministrativo. Si è trattato, pertanto, della sconfitta politica di una struttura di potere fortemente insediata nel tessuto nazionale. Quel che è certo è che i risultati dei ballottaggi confermano la grande instabilità del quadro politico italiano e la mancanza di un radicamento sociale dei principali soggetti politici che si contendono il consenso nelle assemblee rappresentative. La vicenda di Roma è particolarmente significativa. Una volta a Roma nei c.d. quartieri alti si concentrava il voto “nero” per il Movimento sociale, mentre i due principali partiti a base popolare, la Democrazia Cristiana ed il Partito Comunista, si contendevano il consenso nelle borgate e fra il ceto medio. Adesso il partito che vanta ingiustificatamente l’eredità di questi due grandi partiti popolari, il PD, vince ai Parioli e perde in tutti i quartieri popolari, che, col tempo, sono diventati un discreto serbatoio elettorale degli ex fascisti. Il successo riscosso dalla Raggi al ballottaggio dimostra che i consensi ricevuti al primo turno sulla Meloni si sono riversati quasi completamente sulla candidata 5 Stelle, bypassando Giachetti, il volto romano di Renzi, che è stato letteralmente doppiato. Ovviamente i commentatori dei principali giornali si sono sbracciati ad ascrivere questi risultati all’uso spregiudicato del populismo da parte delle formazioni politiche emergenti, tanto a destra, quanto a sinistra. Una crisi economica prolungata ha prodotto un grave ed esteso disagio sociale. Sul fuoco di questo disagio soffiano irresponsabilmente le formazioni populiste per scalzare dal potere i partiti che tradizionalmente gestiscono la cosa pubblica, cavalcando il malessere dei disoccupati, dei precari, degli esodati, con promesse strabilianti o con indicazioni stravaganti. In realtà quest’analisi superficiale non tiene conto che il ricorso al populismo, cioè ad una comunicazione politica che eccita i disagi e gli umori popolari negativi per sfruttarli al fine di costruire un facile consenso politico, non è prerogativa dei soggetti politici privi di potere, ma costituisce uno strumento per la costruzione del consenso nel quale i leaders dei partiti politici con responsabilità di governo non sono secondi a nessuno. Basti pensare alla carriera politica di un sindaco fiorentino che ha “scalato” il partito democratico sfruttando il disprezzo di una vasta platea dei cittadini italiani per il ceto politico, brandendo la falce della rottamazione. Lo stesso metodo è stato seguito, una volta che il sindaco si è ritrovato a capo dell’Esecutivo, per catturare un po’ di consenso dall’elettorato con l’ingegnosa idea di aprire i forzieri dell’erario con la distribuzione di una mancia di 80 euro al popolo e di battere la concorrenza del suo competitore Berlusconi, sottraendogli il merito dell’eliminazione delle tasse sulla prima casa. Ed è populismo elevato al quadrato la martellante propaganda per la riforma delle Costituzione, basata su slogan di facile consumo, quali “per la prima volta la casta riduce se stessa, riduce il numero dei parlamentari, riduce i costi della politica” ed altre amenità di questo genere, concepite per gettare fumo negli occhi e nascondere l’obiettivo reale che è quello di dare più potere al potere e meno potere al popolo. Ma non sempre il popolo obbedisce ai suoi demiurghi.

edito dal Quotidiano del Sud