Il teatrino comico della politica italiana

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Il vociferare incontenibile di ciarlatani di ogni colore, le cui proposte spesso rasentano ridicolo, ha contraddistinto gli ultimi tempi della politica italiana. Lo spettacolo è surreale: vagheggiamenti ed ipotesi fantasiose, vendute per soluzioni taumaturgiche. Ma più pericolose sono le idee che hanno fatto breccia nell’elettorato di alcuni partiti, idee innescate colpevolmente dai loro leader. La più grande menzogna, diffusa ultimamente, nasce da una falsificazione terminologica, da un inganno orchestrato per coprire l’impossibilità economica di realizzare, realisticamente, quanto propagandato per anni. Tale inganno si chiama reddito di cittadinanza, una misura mai applicata integralmente e completamente in nessun Paese del mondo. Siamo, pertanto, di fronte a un progetto utopistico. Nella tradizione storica e nell’impostazione originaria degli ideatori, il reddito di cittadinanza presenta due principali caratteristiche: universalità e illimitatezza nel tempo. Ragion per cui, esso deve essere concesso indipendentemente dalla posizione sociale e dalla situazione occupazionale; è, di conseguenza, cumulabile con i redditi da lavoro e andrebbe distribuito a intervalli regolari. Qui risulta evidente l’inganno. Infatti, quello attualmente alla ribalta dell’opinione pubblica italiana è più propriamente definibile, senza troppi sforzi di fantasia, come reddito di disoccupazione. Queste le sue peculiarità: copertura solo per chi è in cerca di occupazione e limite di durata, con revoca del sussidio alla scadenza dei due anni oppure in caso di entrata nel mondo del lavoro. In sostanza, il completo contrario del reddito di cittadinanza universalmente conosciuto e riconosciuto. Tra le altre corbellerie propagandate, un posto particolare è da riservare alla manifestata volontà di abolire il divieto di mandato imperativo, al fine di ostacolare i continui cambi di fronte, causa di erosione delle maggioranze di governo. Paradossale che a portare avanti tale proposta siano le forze politiche e i partiti che, negli ultimi anni, si sono levati a paladini nella difesa dei principi e delle norme costituzionali. La Costituzione, ribadendo quanto sancito dallo Statuto Albertino, all’articolo 67, prevede che il parlamentare “rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Da sottolineare la Nazione, e non il partito. Il parlamentare non è il fiduciario esclusivo dei suoi elettori ma rappresenta il popolo per intero, e quindi la Nazione. A completare l’articolo, la seconda parte riguardante il divieto di mandato imperativo, principio fondamentale del costituzionalismo ottocentesco. La conoscenza della storia del pensiero politico impone di notare, inoltre, che l’obbligo di mandato imperativo che si vorrebbe instaurare è, concettualmente, qualcosa di molto più prossimo alla democrazia elettiva con revoca del mandato di matrice marxiana, piuttosto che all’idea di democrazia diretta. Al contrario, nella tradizione del costituzionalismo moderno, accettata dalla Carta costituzionale italiana, ha prevalso la democrazia rappresentativa forgiata da Montesquieu. L’abolizione, che richiederebbe una modifica costituzionale e comporterebbe la decadenza del parlamentare in caso di inosservanza e violazione dell’obbligo, non è, pertanto, auspicabile, perché difforme dai valori fondanti della democrazia italiana. Tra l’altro, la Costituzione prevede, come limite al comportamento libero del parlamentare rispetto al gruppo politico di appartenenza, l’art. 49, riguardante nello specifico i partiti, da considerare insieme all’art. 67. Oltretutto, la valutazione finale sull’operato del rappresentante del popolo spetta, sempre e comunque, in ultima istanza all’elettore nella tornata elettorale successiva. In definitiva, il divieto di mandato imperativo è una necessaria garanzia liberale. Rappresenta lo scudo a difesa della coscienza individuale del parlamentare, impedendo l’interferenza del partito sulle questioni che attengono, soprattutto, alla dimensione etica personale; infine, garantisce costituzionalmente i singoli rappresentanti e le minoranze contro le decisioni prese dalle maggioranze interne ai partiti o ai gruppi parlamentari. Abolirlo significherebbe escludere, dal nostro ordinamento, una importante liberal-garanzia, con il rischio di aumentare a dismisura il potere partitico. Come constatiamo ogni giorno, il dibattito pubblico rimane pieno di idee strampalate e di menzogne che, ripetute di continuo, finiscono per diventare verità accolte e diffuse. Ma le bugie hanno sempre le gambe corte. Anche in questo teatrino comico, dove tutto sembra essere lecito e permesso.

Quirino De Rienzo