La ripresa non sarà un pranzo di gala

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Come la rivoluzione, anche la ripresa non è un pranzo di gala; e quindi ha fatto bene il presidente del Consiglio a contenere l’entusiasmo a conclusione del vertice europeo di giovedì pomeriggio che ha messo a punto la risposta dei 27 alla crisi economica scatenata dalla pandemia da Covid-19. E’ vero che da ieri l’armamentario dell’Unione e della Commissione che ne è il braccio operativo si è arricchito di uno strumento finanziario nuovo di zecca, il “Recovery Fund” fortemente voluto dal governo italiano oltre che da Francia, Spagna e altri attori minori, destinato a finanziare la ripresa post-crisi con fondi a valere sui prossimi bilanci dell’Unione integrati da una raccolta sui mercati internazionali garantita dalla Ue e dagli Stati; ma è anche vero che è stata confermata l’operatività degli altri strumenti già disponibili, fra i quali il Fondo salva-Stati, che non solo la Lega e Fratelli d’Italia ma anche buona parte dei Cinque Stelle vedono come il fumo negli occhi. Da ieri è partita una corsa contro il tempo: Ursula von der Leyen ha messo alla stanga gli uffici della Commissione per tradurre in proposta operativa l’assenso registrato in teleconferenza, ma soprattutto per vedere se è possibile, in attesa della formulazione del nuovo bilancio Ue (gennaio 2021) fornire a chi ne faccia richiesta consistenti anticipazioni di cassa per far fronte alle necessità più urgenti. E l’Italia, che proprio ieri ha cifrato in 126 miliardi la perdita di Pil nel 2020, è in prima fila tra gli Stati richiedenti. Da qualche parte quei soldi devono arrivare: se non si apre in tempo il rubinetto del “Recovery Fund”, c’è già pronta la riserva del Mef, che però si porta dietro una minaccia di crisi di governo.

Dunque, la partita si gioca su due tavoli paralleli. Accanto a quello europeo se n’è aperto uno a Roma, dove siedono gruppi di maggioranza e di opposizione, ognuno con le sue carte ben coperte. Silvio Berlusconi è stato abilissimo a smarcarsi da Lega e FdI annunciando il suo assenso al ricorso al Mef (sono soldi disponibili, l’Italia ci ha messo del suo e ha potere di veto sull’uso del tesoretto), e quindi rientrando in gioco non come partner di una nuova ipotetica maggioranza (che non si vede all’orizzonte) ma come leader da ascoltare in vista di combinazioni future. Salvini, ottusamente contrario al Mef, rischia di ritrovarsi col cerino in mano, e se la deve vedere con Giorgetti e buona parte della Lega (Zaia non escluso) consapevole del vicolo cieco in cui il partito del Nord si è cacciato con la sua intransigenza priva di proposte percorribili. Nessuna scissione alle viste, ma l’ipotesi concreta che da quella parte si apra uno spiraglio di dialogo ragionevole, magari favorito dall’entrata in campo di altri protagonisti di governo.

Poi ci sono i Cinque Stelle, che hanno fatto del no al Mef una bandiera identitaria (ma molti di loro, richiesti di definire l’oggetto misterioso, hanno svicolato), e si troverebbero in forte imbarazzo di fronte alla richiesta di un voto parlamentare sull’argomento. In quel caso, Alessandro Di Battista sarebbe pronto a dar fuoco alle polveri, che intanto Giorgia Meloni sta alacremente accumulando sotto lo scranno del capo del Governo.

E allora, togliamo di mezzo Forza Italia che non è mai stato un partito rivoluzionario, ma Lega e Cinque Stelle che lo sono stati alla nascita, dovranno presto fare i conti con l’insegnamento di uno che se ne intendeva, Mao Zedong: “La rivoluzione non è un pranzo di gala…è un’insurrezione, un atto di violenza”. Vale anche per la ripresa, e vale oggi.

di Guido Bossa