La sfida del mandato

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Di Guido Bossa

La bocciatura della proposta leghista di consentire il terzo mandato ai presidenti delle giunte regionali non ha chiuso definitivamente la questione, che verrà riproposta in Aula al Senato, ma intanto ha evidenziato una rilevante frattura fra due livelli istituzionali, quello nazionale e quello territoriale, che attraversa quasi tutti i partiti, di maggioranza e di opposizione. Il nocciolo della questione è presto detto: mentre i parlamentari – deputati e senatori – devono la loro elezione alla volontà delle segreterie dei partiti che li hanno messi in lista in posizione tale da poter ottenere il seggio, i presidenti delle Giunte regionali, così come i sindaci delle grandi e medie città si devono conquistare la vittoria voto per voto, in un rapporto diretto e fiduciario con i cittadini. Inoltre sono loro, sindaci e presidenti, a determinare con il proprio successo la maggioranza dei Consigli, e quindi l’elezione di un numero consistente di componenti delle assemblee. Per non dire del fatto che sindaci e presidenti possono nominare e revocare gli assessori, mentre il capo del governo non può farlo nei confronti dei suoi ministri. C’è poi un secondo aspetto importante: il potere che parlamentari, sindaci e presidenti di regione esercitano direttamente una volta entrati in carica. Anche qui c’è un palese squilibrio: mentre deputati e senatori si limitano prevalentemente a ratificare con il loro voto decisioni prese dal governo e dai capi dei partiti di maggioranza, a livello territoriale il potere degli amministratori è notevole e molto visibile. Non solo ai vertici: si pensi ad esempio alla discrezionalità con la quale gli assessori competenti distribuiscono i fondi della sanità regionale, o gli assessori al Bilancio le risorse dei grandi Comuni. In entrambi i casi, il ritorno in termini di consenso può essere significativo e addirittura determinate ai fini della ricandidatura e della stessa rielezione. Sul piano del rapporto con gli elettori, poi, non c’è paragone che tenga: sindaci, “governatori”, assessori e consiglieri regionali sono quotidianamente a contatto con il territorio e chi vi abita, mentre deputati e senatori una volta eletti si trasferiscono a Roma e fatalmente perdono i contatti, il “polso” della base. Molto speso per essere ricandidati alla fine del mandato devono ricorrere ai buoni uffici dei collettori di voti nei territori di origine. Nel caso della Lega, partito territoriale per definizione, la contraddizione fra consenso locale e rappresentanza nazionale è evidente: alle ultime regionali (2020) il presidente uscente Luca Zaia, rieletto con oltre il 76% dei voti, ne ha raccolti quasi la metà (e 23 consiglieri su 50) su una lista che si richiamava al suo nome, mentre la lista della Lega otteneva uno scarso 17% e nove seggi. A Bari, uno dei pochi capoluoghi di regione del Mezzogiorno ancora governati dai progressisti, il successo del Pd alle elezioni comunali del 2019 è stato dovuto prevalentemente alle tre liste intestate al sindaco Decaro (dieci seggi) mente solo sette seggi sono andati al Partito democratico (due ai Cinque Stelle). Sono solo due esempi, ma dimostrano in modo lampante una realtà che può pesare sulle scelte di governo e parlamento in termini di numero di mandati consentiti a livello territoriale. Una sfida ancora aperta, con ripercussioni anche sul consenso politico dei partiti.