La tentazione del populismo

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Proprio mentre si attenua là dove era nata, la tentazione del populismo avanza irresistibilmente altrove e, dalle nostre parti, invade e inquina territori che a lungo, e per fortuna, ne erano rimasti immuni. Così succede che negli Stati Uniti l’outsider Donald Trump che aveva costruito la sua inizialmente improbabile candidatura alla Casa Bianca sullo smantellamento di tutti i luoghi comuni della correttezza politica, giunto ormai alla vigilia della nomination repubblicana si affretta a spargere bustine di rassicurante camomilla nell’acceso dibattito politico. “So che la gente non sa bene che tipo di presidente sarà Donald Trump – ha spiegato al New York Times –, ma andrà tutto bene. Non corro per la Casa Bianca con lo scopo di rendere instabile il Paese”. Ed è pur vero che alcuni soloni repubblicani, a cominciare dal clan Bush, continuano a non fidarsi; ma oltre a quelli che gli hanno definitivamente girato le spalle, ce ne sono altri pronti a salire sul suo carro non solo per fare carriera ma anche, presumibilmente, per consolidare la svolta “moderata” del candidato. E c’è da ritenere che avvicinandosi la convenzione repubblicana di Cleveland e il fatidico appuntamento dell’8 novembre, i tentativi di ammorbidire e rendere più “votabile” il miliardario newyorchese si moltiplicheranno, mentre c’è già chi gli suggerisce di abbandonare certe intemperanze verbali che andavano bene per infrangere il muro del perbenismo tradizionalista ma potrebbero rivelarsi controproducenti per convincere gli incerti e i tanti che temono un salto nel buio. Insomma: un’icona antisistema può essere utile per alzare i toni della campagna elettorale, ma rischia di diventare una zavorra ingombrante alla vigilia del voto. Attraversando l’Atlantico, invece, succede il contrario. Forse perché qui da noi la posta in palio è più modesta (ma fino ad un certo punto perché siamo alla vigilia di importanti elezioni amministrative e di un cruciale referendum), fatto sta che la tentazione dell’invettiva generalizzata, della contestazione globale, dell’invasione di campo, della delegittimazione dell’interlocutore dilaga a macchia d’olio e trova sempre nuovi adepti, anche dove non te li aspetteresti. A Milano, per dire, la Lega Nord di Salvini sta per lanciarsi in una nuova avventura editoriale che avrà il sobrio titolo di “Populista”, sito di informazione e di dibattito che si propone di essere "audace, istintivo, fuori controllo", e tanto per esser chiari, rivolge questo invito ai suoi futuri visitatori: "Libera la bestia che c’è in te". Bisogna dirlo: neanche il Trump dei suoi tempi migliori aveva osato tanto. Il promotore dell’iniziativa si è presentato l’altro giorno alla stampa estera autoproclamandosi leader del centrodestra italiano, naturalmente senza sottoporsi al noioso esame delle primarie. Ma se Salvini ci aveva già abituato ai suoi eccessi, ecco che la tentazione populista oltrepassa i confini della politica e dilaga nelle istituzioni. E qui la cosa si fa più preoccupante. Non più tardi di una settimana fa il presidente della Repubblica aveva avvertito l’esigenza di intervenire con pacata fermezza nel dibattito che si era acceso in seguito all’intervista del presidente dell’Anm Davigo e polemiche conseguenti, ammonendo che il conflitto istituzionale “indebolisce tutte le parti in contrapposizione” mentre il “mutuo bilanciamento dei poteri” è garanzia di una democrazia ben funzionante; ed ecco che un’altra intervista, questa volta non di un esponente sindacale ma del giudice Piergiorgio Morosini, componente del Consiglio Superiore della Magistratura, organo di rilievo costituzionale, getta nuova benzina sul fuoco con dichiarazioni non smentite sulle doti ai un paio di ministri (“mestieranti buoni a gestire il potere”), sull’autonomia di alcuni illustri colleghi (asserviti al potere editoriale), sulla stessa indipendenza del collegio che garantisce l’autogoverno delle toghe, accusato di mandare ai vertici dei più delicati uffici giudiziari candidati “che per competenze e curriculum non meriterebbero quel posto”. Questa volta è intervenuto il primo presidente della Cassazione Giovanni Canzio, il più alto magistrato italiano, per denunciare l’indebolimento del “tessuto della nostra democrazia”, frutto di affermazioni avventate e delegittimanti. Sono seguite precisazioni, mezze smentite, prese di distanza, ma intanto la deleteria cultura del conflitto tra le istituzioni ha compiuto un altro passo in avanti. Per la cronaca, quando il Csm aveva designato Canzio alla Cassazione, Morosini si era astenuto.
edito dal Quotidiano del Sud