L’angelo nuovo e la fine della storia

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“C’è un quadro di Klee che s’intitola «Angelus Novus». Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta. L’angelo della storia deve avere quest’aspetto. Ha il viso rivolto verso il passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti, ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che gli si è impigliata nelle ali, ed è così forte che non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente verso il futuro, cui volge le spalle mentre un cumulo di rovine sale davanti a lui nel cielo. Ciò che chiamiamo progresso, è questa tempesta”.

E’ questa la più celebre e bella delle “Tesi di filosofia della storia” di Walter Benjamin”, la nona su 18, che è il loro numero complessivo. Il grande filosofo, di origine ebraica, la compose nei mesi immediatamente precedenti il 25 settembre 1940, quando, a PortBou, un piccolo paese dei Pirenei, al confine franco-spagnolo, si tolse la vita ingerendo delle capsule di cianuro per non essere consegnato dalla guardie franchiste agli sgherri della Gestapo. Questa tesi esprime, con lungimiranza speculativa profetica, quale sarebbe stata, nel volgere di meno di un secolo, la morfologia terrificante del pianeta Terra e la condizione di sempre più grave invivibilità di coloro che lo abitano, devastandolo. Due sono i dati macroscopici quanto immediati, e a tutti notissimi, dell’attuale stato del mondo prodotto dal darvinismo capitalistico del mercato globale e del suo apparato della potenza materiale dispiegantesi senza limiti. Essi sono: la pandemia, con i suoi cinque milioni e più di morti e con la fine della sua orrenda strage rinviata sine die per annos; l’entropia ecologica che sta devastando in modo sempre più preoccupante e in forme sempre più violentemente catastrofiche ogni luogo della Terra, lasciando facilmente immaginare che il peggio, che sa di Apocalissi, non è ancora cominciato, ma appare prossimo.

All’indomani del Crollo del Muro, dei Paesi di socialismo reale e dell’URSS, un professore universitario americano, Francis Fukuyama, pubblicò il libro “La fine della storia e l’ultimo uomo” in cui sosteneva che il crollo del comunismo faceva finire la storia nel senso che, da quel momento in poi, il sistema economico capitalistico e quello politico democratico, sua diretta filiazione o quasi, avrebbero garantito all’umanità un futuro di indefettibile progresso, prosperità e crescita della libertà. La smentita a questo acritico e avventato ottimismo non poteva essere più drammatica, totale e bruciante di quella cui stiamo assistendo specie da due anni a questa parte. Invece, già negli anni ottanta, un filosofo nostro conterraneo, Giuliano Minichiello, commentando Goethe e Hegel in pagine filosoficamente mirabili, in cui è al lavoro il concetto, metteva in guardia, in modo più esplicito di altri filosofi, dalla follia del sistema tecnicoutilitaristico con cui la borghesia pretende di sottomettere, non solo gli uomini, ma la natura e le sue leggi alla sua volontà di potenza utilitaristica e di dominio del mondo.

Ora, inutile girarci intorno, ci troviamo a questo bivio, che il recente G. 20 di Roma ha solo scansato: o si affronta una transizione ecologica di tutte le economie che costa più del PIl di tutto il pianeta o ci avviciniamo alla fine della civiltà umana e della Storia.

di Luigi Anzalone