Mi ha stupito, leggendo i giornali di oggi, l’unanimità di apprezzamenti e di stima nei confronti di Ciriaco De Mita, anche da parte di chi gli fu politicamente avversario, pur se in un’alleanza di governo che era molto competitiva. Credo che lo statista appena scomparso avrebbe sorriso sentendo Claudio Martelli parlare di lui come di “un vecchio leone, un grande democristiano”, dotato di “uno stile politico che ormai si è perso”. Del resto, in vita, Ciriaco De Mita fece ben poco per rendersi simpatico: era coriaceo come la sua Irpinia, amava la dialettica e voleva sempre primeggiare nel confronto delle idee come nel gioco delle carte. Aveva il vezzo di misurarsi con intellettuali e giornalisti di sinistra a volte pregiudizialmente antidemocristiani, che però vedevano in lui un avversario da rispettare: Eugenio Scalfari primo fra tutti, ma poi l’intera redazione del “Manifesto”, un cronista parlamentare dell’Unità del quale (volutamente?) storpiava il cognome facendolo arrabbiare ogni volta. Il ritratto che ne ha fatto su “Libero” Vittorio Feltri – uno che con la Dc non è mai stato tenero – è quasi filiale, più che amicale. Rino Formica sul “Mattino” mi pare abbia colto il pregio ma anche un limite dell’azione politica dell’uomo di Nusco: “E’ stato il leader di quella parte della Dc che voleva il vero cambiamento. Voleva conciliare il popolarismo di Sturzo con l’autonomia di De Gasperi e il dirigismo economico”; ma, “come molti della nostra generazione, aveva una forte capacità di rottura ma non è stato capace di far maturare e macerare questo cambiamento nelle coscienze popolari”. Il genere, conclude Formica, “chi produce il cambiamento non è in grado di attuarlo”, che è un amaro epitaffio su una stagione politica che vide Dc e Psi, De Mita e Craxi alleati riluttanti. Formica coglie nel segno: sulla crisi della governabilità, sul rapporto fra politica e cittadinanza, sulla crisi del meridionalismo, sulla laicità della politica, De Mita ha posto problemi che non sono ancora stati risolti. I suoi eredi non sono stati all’altezza delle sue intuizioni. Ha seminato molto, poco è stato raccolto. In parte forse per un suo limite, perché alla lucidità delle analisi non corrispondeva la quotidianità delle realizzazioni, e non è un caso se lo si ricorda più per i sette anni di piazza del Gesù che per i quindici mesi di palazzo Chigi; ma anche, in buon parte, per colpa di chi, non riuscendo a sconfiggerlo sul piano delle idee, ne seminò il percorso politico di ostacoli e trabocchetti. Per non dire del terrorismo, che lo privò dell’uomo – Roberto Ruffilli – cui aveva affidato il compito di disegnare una nuova architettura costituzionale nella quale il cittadino sarebbe stato l’ “arbitro” della scelta dei governi. Quel progetto, come altri, non andò in porto, e fa parte dell’eredità demitiana che ancora necessita di qualcuno che se la intesti; ma intanto un aspetto va sottolineato della biografia di un uomo di cui si disse che amava la solitudine del potere: con l’esperienza degli “esterni” dette un contributo rilevante al rinnovamento della politica. Un nome per tutti è quello di Beniamino Andreatta, che poi avrebbe fatto maturare Enrico Letta; un altro è Romano Prodi, ma se ne potrebbero citare molti altri. Per non dire degli “interni” destinati a far carriera sulla sua scia: Giovanni Goria, Bruno Tabacci, e poi su su, fino a Sergio Mattarella. Per molti di loro, per quelli della cerchia più stretta, come Gerardo Bianco, vale il ricordo di Nicola Mancino: “Ci ha reso orgogliosi di averlo avuto come leader, non solo ad Avellino, ma in Italia e in Europa”.
di Guido Bossa