“Ma l’amore no”, dalla storia familiare alla speranza della rinascita

0
563

Al Circolo della stampa protagonista il romanzo epistolare di Mirella Napodano Ma l’Amore no. Romanzo epistolare per la memoria delle emozioni.  L’evento è stato promosso dall’Accademia dei Dogliosi, associazione culturale, presieduta da Fiorentino Vecchiarelli, in collaborazione con l’ArcheoClub di Avellino. L’intento che ha ispirato questa Associazione nella scelta di un nome così pregante, e carico di valori, è la volontà, sicuramente ambiziosa, di far rivivere i fasti dell’antica Accademia, voluta nel 1620 dal Principe Marino II Caracciolo. L’Accademia si impose, a quei tempi, come polo culturale di eccellenza,  un punto forte di riferimento intorno a cui ruotò la migliore intellighentia irpina. L’adozione di un nome così prestigioso è dunque un chiaro segnale del proposito, direi programmatico, di operare al meglio per la crescita culturale e civile del nostro territorio nell’intento di favorire iniziative culturalmente valide e di sicuro rilievo. Ed è appunto di questo tipo l’iniziativa promossa ieri sera ad Avellino, nella sede del Circolo della stampa, non solo per la qualità e per il valore del libro ‘in scena’, e per  l’indiscusso prestigio dei relatori intervenuti, quasi tutti afferenti all’Ateneo salernitano, ma anche per la strutturazione complessiva dell’evento cui si è affiancata una mostra di documenti originali, lettere e preziosi materiali d’epoca, curata dalla stessa Autrice, Mirella Napodano. L’evento  è stato arricchito altresì da spazi musicali, col supporto di letture sceniche, sapientemente scelte in funzione di raccordo tra i vari interventi. Il reading è stato curato da Giancarlo Guercio, dottore di ricerca presso l’Ateneo salernitano, nonché regista, docente di arti sceniche e attore, che ha fatto rivivere con la sua plastica e straordinaria capacità timbrica il clima turbolento di guerra che fa da sfondo al romanzo, ma anche quel tempo sospeso, quel senso struggente di attesa che è poi il fulcro intorno a cui ruota la storia d’amore, abilmente intessuta dall’Autrice, sul doppio livello della documentazione storico-epistolare e del racconto.

Ad aprire la serata i saluti di Fiorentino Vecchiarelli, Presidente dell’Accademia dei Dogliosi, e di Ettore Barra, qui in qualità di Vice Presidene dell’ArcheoClub di Avellino, ma ben noto per la sua qualificata e appassionata attività culturale, che gli ha consentito di assumere, fin dal 1918, e meritatamente, la direzione di “Riscontri”, fondata da Mario Gabriele Giordano, una rivista nata alla fine degli anni Settanta, che ha mantenuto fede nel tempo all’impostazione iniziale, espressione di una cultura che fosse soprattutto coscienza critica della realtà, capace di procedere e operare “nel vivo della comunità civile non per dogmi ma per riscontri”.  Un’indicazione programmatica perfettamente recepita e rilanciata  da Ettore Barra che ha dato vita, nella nuova serie, a una rivista “di cultura e di attualità”, promossa dalle edizioni Terebinto, che, pur assolutamente fedele allo spirito originario, e dunque fortemente legata al  territorio, riparte proprio da quella componente primaria accentuando semmai la disponibilità ad aprirsi verso orizzonti più ampi di cultura e di conoscenza. Ettore Barra è entrato nel vivo dell’ argomento proposto, cogliendo in Emilia, nel personaggio femminile, la vera protagonista del romanzo, e soffermandosi, molto efficacemente, sui diversi registri linguistici che caratterizzano il romanzo. Interessante anche la sua notazione sul valore “informativo” delle lettere che portano allo scoperto caratteri e aspetti della comunicazione ‘a distanza’, sui tempi e sui modi di ricezione, sicuramente lenti e soggetti alle traversie della guerra, ma certo più permanenti e duraturi rispetto  al consumo rapido e superficiale delle odierne modalità di comunicazione, prodotte dalle più recenti tecnologie..

A introdurre e coordinare brillantemente l’incontro, Carlo Santoli, docente di Letteratura italiana contemporanea dell’Università di Salerno, e ormai ben noto e fecondo operatore culturale, da sempre convinto assertore del principio della meritocrazia, e dunque disponibile a dar voce, attraverso iniziative e pubblicazioni di rilievo, alle giuste attese di giovani e meno giovani, che cercano legittimamente uno spazio in cui esprimersi liberamente, e trovare occasioni di confronto e di incontro.

Santoli ha introdotto alla lettura dell’opera con una suggestiva provocazione sulla strutturazione complessiva del testo che per i  toni, le finalità, i caratteri, sfugge a definizioni codificate o a preconcette formulazioni di ‘genere’, mettendo in giusta evidenza la singolarità dell’opera per la quale ritiene che sia più corretto parlare di originale metaromanzo, “cui può ascriversi la cifra del romanzo europeo moderno”. Base di partenza di questo ‘racconto’ sono, dunque, le circa 250 lettere che il padre Carmine indirizzò alla madre Emilia  dal ‘39 al ‘43: sono gli anni cruciali del ventennio fascista che preludono alla politica di espansione coloniale e allo scoppio della guerra.  Le lettere si succedono con cadenza regolare, anche se soggette nella ricezione, ai ritardi, spesso, direi, alle traversie imposte dalle circostanze della guerra. Non è difficile ipotizzare che il giovane Carmine ne abbia scritte molte di più, stante le circa 600 lettere ‘in risposta’ che egli scrupolosamente numerò  ma che fu costretto prudentemente, a guerra inoltrata, a distruggere.  Una parte del ricco epistolario rivive ora in questo ‘romanzo’, l’autrice recupera le lettere da un lungo oblio, le trascrive amorevolmente, esse diventano l’anima, il fulcro della sua ‘narrazione’, o forse, è meglio dire, del suo lavoro di scavo nella memoria,  di esplorazione  del passato, ben consapevole che esse raccolgono le tracce di una irripetibile unicità. Santoli ha osservato come i toni, le finalità, i caratteri di questa struggente storia d’amore, finiscano per promuovere proprio le emozioni  al rango di protagoniste del racconto. Ecco perche l’autrice sembra dismettere, talvolta, il ruolo di ‘narratrice’ per assolvere alla funzione di regista, nell’intento, quasi programmatico, di rinnovare la memoria di episodi, situazioni, vicende che costituiscono la sostanza vera della narrazione.

La scrittura diventa così “funzionale” al coinvolgimento e alla partecipazione attiva del lettore nel testo (“lector in fabula”). Santoli ha messo in evidenza, molto opportunamente,  l’innegabile originalità della scrittura ‘romanzesca’, una scrittura innovativa che restituisce a tutti noi un contributo interessante e significativo, coniugando realtà esterna e realtà interna, in una trama in cui i pensieri, le fantasie, i sogni, i ricordi, le emozioni, la storia, insomma, di una umanità, definiscono il flusso multanime della coscienza. Non semplicemente, dunque, un romanzo epistolare dell’esistenza, in cui si invera la vita interiore dei personaggi, ma una narrazione in cui si coglie, anche attraverso una parola phoné kai schema, la percezione e l’incanto di un tempo perduto (le “temps perdu” di matrice proustiana), ma un tempo che nella elaborazione creativa diviene ora ritrovato, tra epifanie e manifestazioni del reale. Santoli ha giustamente sottolineato, ancora una volta, il valore della parola, che si fa “tesa”, perché è “attesa”, riflessiva, introspettiva e interrogativa.

A  Francesco Barra, già ordinario di Storia moderna all’Ateneo salernitano è toccato il compito di scandagliare a fondo il tessuto storico del racconto, e non poteva essere che questa la scelta migliore, sappiamo con quanta perizia, avvalorata dai risultati raggiunti, Francesco Barra si sia dedicato a lungo, agli studi sul Mediterraneo e sul Mezzogiorno d’Italia nella cruciale fase di transizione tra il declino dell’ancien régime, la crisi rivoluzionaria e il periodo napoleonico. Ma sappiamo anche quanta attenzione  abbia rivolto, con cura amorevole e assidua, alla realtà storica irpina. Sua creatura è stata la grande impresa della Storia illustrata di Avellino e dell’Irpinia , edita in nove volumi dal compianto Elio Sellino, un’impresa alla quale ho avuto anche io l’onore di partecipare, e sua è stata l’idea del Dizionario biografico Irpino, un’impresa altrettanto monumentale, e ancora in progress,  che è non solo la prova del suo amore e del suo legame strettissimo col territorio, ma anche, e, direi soprattutto, l’espressione di un metodo di ricerca, della sua capacità di rapportare il particolare al generale, avvalendosi di collaborazioni di valore, e mirando a costruire, voce per voce, uno spaccato puntuale del rapporto che la provincia di Avellino ha stabilito nel tempo con il resto del Paese e con la stessa Europa. E proprio in questa ottica Barra ha letto questo singolare romanzo epistolare, strutturato secondo due registri, o due livelli di scrittura, quello delle lettere e l’altro del commento, ma dove il dato storico assume un rilievo centrale: esso diventa il motore o, diciamo pure, l’elemento trainante del racconto. Barra ne ha offerto un’analisi singolare seguendo il filo del suo metodo di studio, e decodificando, da par suo, i momenti storici salienti che influirono sullo svolgersi della vicenda e sul destino di quelle vite. Un’analisi accurata dal punto di vista storico, ma condotta sempre con un occhio attento alla microstoria di quell’ambiente di ‘provincia’, che l’Autrice ha fatto  rivivere, sapientemente, negli usi, nei costumi, ma soprattutto nelle tante figure care, sulle quali si è a lungo soffermato il relatore, e in particolare sul peso che ebbe in quegli anni la figura del nonno, don Fiorentino Cotone, fondatore del “Don Basilio”, personaggio di spicco della vita culturale del tempo, e senza trascurare il ruolo dei tanti intellettuali che gravitarono nei locali della storica Tipografia Pergola di Avellino. Barra  ha sottolineato il fervore che animò, in quegli anni, l’ambiente intellettuale irpino, e che oltrepassò i limiti della nostra provincia, interessato piuttosto a raccordare il particolare al generale, gli eventi di una piccola provincia ai grandi eventi della Storia, a quella macrostoria che regolò i destini e gli assetti dell’intera Europa e non solo.

Milena Montanile raccogliendo in qualche modo la provocazione lanciata da Carlo Santoli sulla difficoltà a chiudere il racconto in rigide, nonchè discutibili formulazioni di ‘genere’, ha osservato come di fronte a un libro come questo, strutturato secondo due registri, o due livelli di scrittura, quello delle lettere e l’altro del commento, sia quasi spontaneo chiedersi se siamo effettivamente di fronte a un romanzo epistolare, come recita il sottotitolo, o se invece si tratti di qualcosa di diverso, forse più vicino a una  narrazione in cui il commento, intessuto di ricordi personali, ma anche di notazioni storiche e di costume, si prolunghi oltre lo spazio delle lettere, ma in cui è proprio il sintagma nominale che dà luogo al sottotitolo (romanzo epistolare per la memoria delle emozioni) a dirci qualcosa in più, a metterci sull’avviso che forse quello che abbiamo di fronte è  qualcosa di ‘altro’ o  ‘diverso’ rispetto a ciò che in genere s’intende per romanzo epistolare.

Più fruttuosa in questo senso la strada suggerita dall’autrice quando parla del suo libro come di una sorta di biografia esistenziale costruita a ritroso,  dalla parte delle radici,  nell’intento di decodificare l’implicito che si vela e svela dietro le parole e gli avvenimenti narrati. In realtà la singolarità di quest’opera, sta proprio nella suggestione di una scrittura che si racconta, lambendo stili e forme diverse, senza mai pretendere di imporsi in una forma dalla illusoria e finita compiutezza. Anche in questo caso si potrebbe parlare più di un racconto ‘in termini autobiografici’, nel senso proprio indicato da Duccio Demetrio, che di un’autobiografia come ‘genere’, che resta comunque difficile da definire, come ci insegnano i grandi teorici del genere. Non a caso viene meno nel libro  quel principio dell’identità –  l’ identità tra il narratore e il soggetto della narrazione –  su cui si basa il “patto” autobiografico, risulta invece  perfettamente osservata  l’altra condizione, ritenuta indispensabile per identificare il ‘genere’, e cioè la presenza della narrazione, che consentirebbe di parlare, anche sotto questo aspetto e a buon diritto, di scrittura  autobiografica.  Ma anche in questo caso il tentativo di dare una definizione univoca e certa vacilla, si sa quanto l’autobiografia resti un genere ambiguo, di difficile definizione, un genere per il quale non esiste uno stile o una forma obbligata. L’autobiografo, scrive Starobinski, ha un ampio ventaglio di possibilità: può contaminare il racconto della propria vita con quello di avvenimenti di cui è stato  testimone distaccato, e allora egli indossa le vesti del memorialista. Ma può anche tornare su sè stesso, lasciando affiorare il proprio io, e allora il diario intimo contamina l’autobiografia. Le condizioni indicate fanno riferimento a un quadro abbastanza ampio, entro cui è possibile che si realizzi una grande varietà di stili particolari.

Nel caso di questo ‘romanzo’ la situazione si complica: l’autrice, contravvenendo, ma solo apparentemente, al principio d’identità, sceglie  la memoria del passato, sceglie cioè di spostare l’attenzione da sé anteponendo ad essa il racconto di vicende familiari, attinte in parte dalle lettere, e in parte ricavate dallo scrigno prezioso della memoria: «Devo ringraziare mia madre –  se conosco e ricordo in dettaglio molti avvenimenti antecedenti alla mia nascita»; avvenimenti disseminati nei minuziosi racconti sulla propria storia personale e familiare di cui sua madre le aveva fatto generosamente dono. Romanzo, autobiografia o biografia, i confini tra questi generi, già di per sé sfuggenti, sembrano nel nostro caso dissolversi. La  biografia, scrive ancora Starobinski, intesa come il racconto di una vita, presuppone la durata e il movimento: «Il racconto deve coprire un arco di tempo sufficiente perché appaia il tracciato di una vita». Condizioni perfettamente osservate in questo libro, dove la durata e il movimento sono assicurati dallo svolgersi degli eventi che riguardano due giovani innamorati, in un arco di tempo circoscritto. E dove le lettere, amorevolmente sottratte dall’oblio, fungono da elementi trainanti della memoria e dei ricordi. Ecco perché diventa prezioso il riferimento  all’autobiografia come ‘metodo di ricerca del sé’, cui fa riferimento l’autrice stessa nella densa introduzione, a conferma che quello che abbiamo di fronte, e al di là di ogni teoria, è un singolare tentativo di scrittura in termini autobiografici, che affiora non solo nel desiderio amorevole di dare in luce le lettere paterne, ma anche nella scelta, apparentemente ‘spersonalizzante’ di trasgredire al principio di identità, raccontando in terza persona le vicende che accompagnano e ruotano intorno alle  lettere.

Questo bisogno di tornare alle radici o alle origini della propria vita, sembrerebbe far emergere, attraverso un vero e proprio processo di transfert, il bisogno, quasi terapeutico, di esorcizzare dolori e inquietudini, in uno scambio continuo tra il sé e l’altro, in ultima analisi  di riappropriarsi del passato, con tutto il retaggio di affetti, vicende, sentimenti, ma anche di emozioni che quel passato veicola e di cui  l’autrice si fa protagonista e interprete. Valga per tutto la bella notazione sull’origine del nome, Mirella, e sull’ impressione che i due giovani ricavarono dalla lettura dell’omonimo romanzo in versi di Frédéric Mistral. In quell’episodio, in cui i due giovani si confrontano e si scambiano impressioni di lettura, è collocata la genesi di quel nome che per un bizzarro gioco del destino, com’ella scrive, le fu elargito in sorte,  un nome, composto di tre note musicali, e dunque fortemente evocativo, carico di suggestioni letterarie e musicali, rivissuto come segno di «un’occulta profezia», annuncio o epifania del  «precoce e sconfinato amore» che l’autrice stessa ha nutrito e nutre da sempre per la musica (bella l’immagine di sé bambina, intenta a mandare a memoria brani dal coro del Nabucco).  Da questo nucleo genetico deriva anche  il continuo affiorare nel romanzo di canzoni d’epoca, emblematizzate nel titolo stesso del libro (Ma l’amore no), canzoni che segnano un’epoca (da Lili Marlene, diffusa durante la prima guerra, a Portami tante rose,  Que restait-il, ecc.), ne interpretano, ad ogni livello, emozioni, stati d’animo, sentimenti, e brani di canzoni, disseminati tra le righe di questo libro, tornano come «pensieri musicali sovrapposti al dipanarsi degli avvenimenti», che l’autrice stessa recupera come evocazione di un lontano vissuto. Nella descrizione accurata di luoghi, ambienti, suoni, finanche di profumi e sapori, in quell’ampia zona narrativa che fa da raccordo tra le lettere e segue lo scorrere cadenzato degli eventi affiora, riflesso specularmente, l’io-autore, sorpreso, per così dire, in una sorta di dialogo continuo e silenzioso col proprio passato.

«La narrazione che permea questo libro – scrive l’autrice – è distolta dalla mia persona per una scelta consapevole, intesa ad evitare di indulgere nel raccontare e raccontarmi una storia di persone perdute per strada troppo presto, nell’oscurità di sentieri tortuosi e senza sbocco».

A spingere l’autrice in questo viaggio a ritroso della memoria è quindi il  desiderio di scavare nel retroterra della propria vita e delle proprie emozioni per cercare di riordinare il cassetto dei ricordi, di far pace, come ella stessa scrive, con le proprie memorie, e in ultima analisi col proprio passato. E in quest’intento ha buon gioco non solo l’indiscussa competenza dell’autrice nell’ambito della sua  professione, apprezzata e attiva dirigente scolastica, interessata ai problemi della formazione, ma soprattutto la sua qualità di studiosa, geneticamente versata per lo studio e  per la riflessione, mi riferisco in particolare all’impronta filosofica della sua formazione,   alla sua qualità di studiosa esperta di filosofia dialogica, sappiamo che il dialogo ha rappresentato, è già per buona parte del pensiero antico, il modo proprio del discorso filosofico. Un orientamento del pensiero che  rivaluta il principio dialogico, inteso non solo come metodo euristico, ma come condizione di autoconsapevolezza, in cui il dialogo diventa la via per conoscere sè stessi e il mondo. L’autrice nella stesura dei suoi ricordi sembra tuttavia avvicinarsi a una linea di pensiero più radicale,  rappresentata, tanto per fare un nome, dal filosofo tedesco Martin Buber che assegna assoluta centralità al tema del dialogo e della relazione. L’uomo cioè non come sostanza ma come risultato di una fitta rete di rapporti e di relazioni. E tale  si presentano non solo i protagonisti di questo romanzo, Carmine ed Emilia, ma anche tutti i personaggi, apparentemente solo ‘di contorno’, che ruotano intorno alla vicenda (penso a quella schiera di figure ‘minori’ che animano la variegata e composita famiglia Cotone: Rosa, la giovane domestica orfana di un paese vicino, sottratta a una vita di stenti, che gareggia in abilità con Giovannina, la bionda e gobba lavandaia, a Filumena ‘a capera, a zi’ Serafina, impareggiabile nell’impastare pettole di tagliatelle all’uovo, e a cantare filastrocche). E penso ancora alla ricca galleria di figli, nonni e nipoti, simile quasi a una grande famiglia allargata di oggi, che convivono nella casa del grande patriarca  don Fiorentino Cotone  (lo storico palazzo al n. 116 di Corso Umberto), giornalista di professione, figura di spicco dell’intellighentia irpina di quegli anni, fondatore e direttore del “Don Basilio”, emblema nella vita ma anche nella pratica giornalistica di rettitudine morale, due volte vedovo in giovane età, e padre autorevole e insieme amorevole, di sette figli, nati dai tre matrimoni). Personaggi che vivono e si raccontano in relazione con gli altri, interpreti e testimoni, nelle loro speranze, nei lori sogni, nelle loro delusioni, di una storia ‘minore’, quella microstoria, per lungo tempo ignorata o rimossa, ma che, già da tempo, la storiografia più aggiornata ha riscattato, affiancandola a buon diritto alla grande Storia. Da questa linea di pensiero, che assegna assoluta centralità al tema del dialogo e della relazione, l’autrice ricava  gli strumenti più adatti per intraprendere il suo viaggio di conoscenza: un cammino esperenziale, condotto con le armi del dialogo muto e silenzioso con figure e eventi di un passato che è solo suo e che dunque le appartiene. Con queste armi s’inoltra nel labirinto della memoria,  spinta dal bisogno di interrogarsi sulla propria vita e sulle domande ineludibili dell’esistenza: «Nessuna di queste migliaia di storie, scrive, è uguale ad un’altra: ogni vita che viene al mondo è un unicum, un’epifania dell’Io, che si rivela nella sua soggettività originaria, coniugando le proprie peculiari potenzialità con le svariate opportunità fornite dal tempo e dal luogo in cui si trova a vivere». L’autrice fa riemergere  così, attraverso questo singolare affresco, attraverso le tante, variegate, figure che affollano la scena del romanzo,   il valore educativo della memoria, del passato come patrimonio di affetti e di valori da trasmettere ai posteri.  Indubbiamente il libro di Mirella Napodano suscita, anche sotto questo aspetto, interessanti spunti di riflessione. È opportuno  aggiungere, ora, solo una breve riflessione sui diversi registri di scrittura che caratterizzano il romanzo, e che danno origine a due distinte ma,  per certi aspetti, convergenti ‘narrazioni’, se pure  vogliamo escludere i puntuali riferimenti storici inseriti qua e là a commento delle lettere, o le ricche e informate note esplicative (note storiche, di costume, che aprono interessanti squarci di tipo antropologico su aspetti della cultura popolare, ma anche materiale del tempo), note che  svelano la precisione della studiosa alla quale si deve un’ampia e apprezzata saggistica  di impronta filosofica.

La narrazione

C’è dunque in prima istanza la narrazione di Carmine, consegnata alle lettere, scrupolosamente, ma soprattutto amorevolmente trascritte. E’ il luogo in cui si svolge il dialogo tra i due giovani, il padre Carmine e la madre Emilia, il luogo in cui si sviluppa la loro storia d’amore, e dove emerge la ferma, e direi pacata determinazione di Carmine, in quel suo continuo e amorevole tentativo di  sanare inquietudini, malesseri che di tanto in tanto assalgono la giovanissima Emilia, una storia travagliata vissuta costantemente nella dimensione dell’attesa, in quel tempo sospeso che la guerra dolorosamente impone. E l’attesa è sicuramente il tema, direi il filo rosso che attraversa questo libro.  Carmine, da giovane sergente, ligio al suo dovere, accetta in massima parte lo stile di vita imposto dalle circostanze di guerra. Le sue lettere si rivelano sempre molto affettuose e , a tratti, direi, anche scherzose, ma sempre precise su argomenti appunto ‘ai margini della guerra’,  interessato piuttosto a quel microcosmo di persone e affetti che ruotano intorno a Emilia,  quasi  per riappropriarsi di ambienti e affetti lontani. Un affetto sconfinato e una premura che si avverte ovunque,  dietro ogni parola, nei suoi incoraggiamenti, nelle sue richieste, sia quando la incoraggia ad avere maggior cura della sua salute, sia quando le chiede particolari, anche minuti, della sua vita,  del suo lavoro (Emilia svolgeva con cura meticolosa il lavoro di segretaria contabile presso la storica tipografia Pergola di Avellino), spinto dal desiderio fortissimo di sentirsi egli stesso parte di quel mondo. In realtà accanto al dipanarsi della storia d’amore, queste lettere raccontano la guerra  attraverso il filtro di emozioni e di  affetti.  Carmine, a parte  più o meno sotterranei riferimenti alle azioni militari che si svolgevano sul fronte di guerra, sembra spostare l’attenzione sugli effetti, o meglio sulle ripercussioni nella sfera del privato, della sua esperienza di militare sul fronte (dalla difficoltà nella gestione della propria corrispondenza, spesso danneggiata nei conflitti aerei o dispersa, ai geloni di cui soffriva, dovuti ai continui spostamenti nei freddi rigori invernali, in balia di neve, sabbia, vento, ai disagi di cui soffriva per mancanza di medicinali o di altri mezzi di prima necessità).

Perfettamente speculare a questo racconto il commento che l’autrice pone  a  raccordo tra le lettere. Ma è proprio in questa zona che lo spazio si dilata oltre i confini delle lettere,  con  squarci efficaci su personaggi e ambienti che afferiscono a quella storia ‘minore’ di cui si diceva, ma che ci restituiscono lo spaccato di un’epoca. E’ in questo spazio che l’autrice ci regala  pezzi di autentica maestria descrittiva, oltre che narrativa: suggestivi i suoi ritratti di interni, il salotto di casa Cotone, gli arredi preziosi, i mobili di pregiata fattura, ma anche gli ‘esterni’, ritratti come luoghi dell’anima: il palazzo al civico 116 di Corso Umberto I, i gradini della Chiesa delle Oblate, la verde collina che sovrasta il torrente Fenestrelle, lo storico Caffè Roma, il Circolo della stampa. E scolpiti nella memoria, i personaggi che animano la scena. Autentico protagonista di questo che potremmo chiamare ‘romanzo’ secondo  è indubbiamente il nonno, Don Fiorentino Cotone, figura dal fascino carismatico, la cui presenza si avverte ovunque, tra le righe di questa suggestiva ‘narrazione’, è la figura sulla quale l’autrice torna spesso, direi con insistenza, e non senza un certo coinvolgimento emotivo, Don Fiorentino rappresenta per lei, come già per Emilia, un riferimento forte, una figura nella quale si condensano volti e luoghi della sua infanzia. Suggestivo è il ritratto del nonno, intento a mettere ordine nella sua preziosa collezione di periodici irpini, l’incontro con il giovane studente pugliese, il suo ruolo in occasioni di feste e celebrazioni pubbliche. Ne deriva uno spaccato straordinario della vita, dei costumi, e delle tradizioni, di una città di provincia, forse attardata per certi aspetti, ma attraversata da sicuri fremiti di cultura. A farne fede il ritratto del salotto di casa Cotone, centro di incontro di studiosi e intellettuali, o la descrizione  di quella fucina di cultura costituitasi nei locali della tipografia Pergola di Avellino, luogo d’incontro dei nomi più in vista dell’intellighentia del tempo (da Giuseppe Valagara a Filippo De Jorio a Vincenzo Pennetti a Valdimiro Testa, solo per fare qualche nome). L’autrice ci offre parallelamente squarci suggestivi che  afferiscono alla storia del costume e delle tradizioni (si pensi alla cascia ‘e biancaria, orgogliosamente esibita da Rosa, la domestica di casa Cotone), con un interessante spaccato sulla cultura materiale del tempo: le gare carnevalesche che vedevano arbitro proprio don Fiorentino, i festeggiamenti in occasione della tradizionale celebrazione dell’Assunta, con il rito del ‘pannetto’ di famiglia in raso azzurro, la cui esposizione era ancora una volta concessa in privilegio a Don Fiorentino, e così via. Suggestiva la descrizione del cibo da strada offerto in occasione della festa. (o musso, e’ scagliuozzi, ‘o spasso, castagne ‘ro monaco, ecc.)

L’autrice mette in atto con questo libro, per altro di gradevolissima lettura, la mirabile sceneggiatura di una storia familiare. E non è senza significato che esso sia stato concepito nell’epoca ‘muta’ del lockdown, in quel “tempo cattivo” e reificante che ha risucchiato l’uomo, lacerandone l’anima. In realtà il libro, concepito nel tempo sospeso dell’emergenza pandemica, continua a parlarci ancor oggi, e direi oggi più che mai, in una società attanagliata da un nuovo ‘mal di vivere’, da una nuova, e direi, più grave, forma di epidemia che il lockdown ha portato solo in drammatica evidenza: parliamo di  quel senso diffuso di solitudine, connessa all’ autoisolamento sociale, che unito allo sviluppo incontrollato, e non sempre benefico, delle nuove tecnologie, conduce all’alienazione, e tra i possibili esiti, alla violenza, a tutti quei mali di cui soffre la società di oggi, pervasa dal delirio dell’antropocentrismo, da un vuoto culturale generalizzato. Si sa bene che la solitudine è un sintomo del sistema che la produce, legata proprio all’indebolimento del rapporto individuo-società: una condizione di obiettiva sofferenza, di vera e propria malattia, sintetizzata nel maggio scorso da Vivek Murthy, medico statunitense di origine indiana, in un fitto documento di circa ottanta pagine (Strategia nazionale per promuovere la connessione sociale). “La solitudine, ha scritto Murthy, è come la fame o la sete. Una sensazione che il corpo ci invia quando qualcosa di cui abbiamo bisogno per la sopravvivenza viene a mancare”. Ebbene il libro di Mirella Napodano acquista in questo senso un valore aggiunto, veicolando, oltre al piacere della lettura, un desiderio, un’aspirazione, forse anche un’utopia: l’invito per le generazioni attuali a ritrovare, attraverso un dialogo costruttivo col proprio passato, la forza per rinascere.

L’evento di ieri sera che ha visto ‘in scena’ questo singolare ‘romanzo epistolare’, arricchito da siparietti musicali, posti a sottofondo delle letture, vere e proprie performances teatrali, offerte dall’attore Giancarlo Guercio, si è concluso, alla fine della serata, con un suggestivo ‘fuori programma’ dell’attore che ha inteso consegnare al pubblico intervenuto, la lettura di un brano di Franco Arminio su L’infinita vigilia della fine: un’amara riflessione sul nostro presente, attanagliato da un clima di terrore, di paura, di violenza, di guerra che il conflitto in Medio Oriente ha portato, in questi ultimi giorni, in drammatica evidenza.

Milena Montanile