Migranti: corsi e ricorsi storici

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Le recenti polemiche tra Renzi e Monsignor Galantino sulla complessa problematica degli aiuti ai migranti ripropone una questione dibattuta da almeno trenta anni. In particolare ricordo l’espressione “insegniamo ad usare la lenza per pescare, al posto di inviare pesce in scatola” sostenuta da un autorevole economista -durante un convegno nazionale delle Acli- per ravvisare la necessità di intervenire sullo sviluppo endogeno dei paesi di provenienza dei flussi migratori. Certamente le dimensioni del fenomeno non erano, allora, quelle attuali , ma la finalizzazione degli aiuti ai paesi in via di sviluppo era più che mai urgente già allora e costituiva la via maestra per affrontare concretamente il problema con una visione preventiva di grande intuito e responsabilità. Attualmente , aldilà della mediazione di Matteo Ricchetti, responsabile della comunicazione renziana e la linea conciliativa del segretario di stato del Vaticano Parolin,sembra delinearsi la composizione della polemica con l’affermazione “aiutarli a casa loro sia frase viva. Sia assicurato il diritto di partire oppure restare” In realtà un discorso più approfondito e di concreta attuazione va delineato. Anzitutto ogni ipotesi seria per affrontare con efficacia il problema va messa in cantiere a livello europeo, sia per le già ricordate dimensioni , sia per la necessaria armonizzazione delle politiche migratorie nazionali con quelle europee. In concreto è urgente e necessario che l’Europa parta dalla consapevolezza che gli aiuti in loco non possono escludere politiche nuove e finalizzate di integrazione all’interno di tutti i paesi europei. Tanto premesso, sulla prima tipologia di intervento, sono esemplari e significative le azioni formative già in atto in alcuni Paesi da cui provengono i flussi migratori, per esempio, gli interventi di formazione professionale dei centri formativi Salesiani. Di fatti in quelle zone, uno dei primi obiettivi da raggiungere è costituito dall’uso dell’acqua potabile, sia per soddisfare la sete , che per instaurare minimali condizioni igieniche e sanitarie. Ebbene lo studio idrogeologico locale aveva evidenziato che l’acqua era abbondantemente disponibile a profondità facilmente superabile con le tecniche di captazione e canalizzazione dell’acqua stessa. Però il problema non si risolveva con le iniziali operazioni di captazione, potabilizzazione e canalizzazione , ma – nel quadro di interventi formativi di lungo periodo- bisognava formare professionalmente i giovani indigeni per assicurare la normale manutenzione degli impianti e la fruizione del prezioso liquido anche quando i formatori, laici e presbiteri salesiani, erano costretti ad offrire le loro competenze professionali in nuove zone dove le emergenze erano macroscopiche in ordine alle minimali condizioni di vita. Le esemplarità di tali interventi con le connesse ricadute occupazionali – oltre alle già ricordate migliori condizioni di vivibilità- costituisce e può ancora costituire motivo di diminuzione dei flussi migratori in uscita e la riscoperta dell’amore e dell’interesse per la propria terra. Se dalla constata validità di questi micro-interventi,si parte per progettare e sostenere le più vaste e multiformi tipologie di percorsi formativi endogeni , le dimensioni e l’efficacia di una diffusa progettualità di sviluppo complessivo può costituire davvero una linea di marcia concreta per rassicurare “il diritto partire oppure restare”. Come sempre le parole restano tali se non sono sostenute da concrete indicazioni operative affinhè lo sperpero di ingenti finanziamenti, l’ingerenza malavitosa e lo stereotipato dibattito tra le forze partitiche nostrane favorevoli o contrarie all’accoglienza, possano trovare un terreno di sintesi progettuale caratterizzato da consapevolezza, competenza e visione di sviluppo di lungo periodo.

Di Gerardo Salvatore, pubblicato su “Il Quotidiano del Sud”