Poesia contro i fantasmi

0
2334

Di Vincenzo Fiore

Ogni mattina Ulisse Casartelli si sveglia prendendo per mano i suoi fantasmi, contro i quali ha lottato duramente rinchiuso in un vecchio manicomio, ma che ora sono diventati abituali compagni di vita: «Un demone ubriaco / canta nelle orecchie / l’illusione di una morte / che promette libertà». Ulisse scrive di preferire il precipizio piuttosto che il costante terrore di cadervi dentro. E chi meglio di lui, esploratore degli abissi e lottatore di dolori reali e invisibili, può saperlo. Il male scruta quotidianamente i suoi occhi e, spesso estenuato, egli distoglie lo sguardo implorando la serenità perduta. Altre volte, invece, Ulisse lo affronta e, sconfiggendolo, dona la vita a una nuova poesia: «Pace / ti vorrei mia / se non fosse che per averti / mi costringi in una lotta». Se il mondo è un’enorme massa tumorale, Ulisse lo incide a fondo e vi tira fuori il suo lato più dolce, e con la delicatezza dei suoi versi è capace di far arrossire persino un demonio. Nella nuova raccolta di Casartelli, «L’immensità della cenere» (Marco Saya Editore) il lettore non troverà poesie sugli amori perduti o sui tramonti, né tantomeno sulle colombe e l’infinito. Ulisse canta dei malati, dei folli e, soprattutto, di un’esistenza soffocante e a tratti priva di senso: «Prossima vita / sarò un albero / in mezzo a un campo di riso. / Mi vedrai veloce / dal finestrino / il tempo di qualche secondo». Leggere questa raccolta è come attraversare mille cocci di vetro in frantumi per poi uscirne rigenerati. Se la bestialità della vita costringe a sofferenze contro le quali nulla è possibile fare, i versi di Casartelli insegnano che in fondo è possibile rialzarsi anche quando non sembrano esserci più motivi per farlo: «Nell’immensità della cenere / ci siamo ritrovati bianchi, ripuliti dalle scorie / che la vita ci aveva lasciato». E se qualcuno si chiedesse com’è possibile che la poesia possa nascere fra i letti di un ospedale, vale la pena parafrasare Ulisse stesso che una volta ha affermato: «I veri matti sono fuori». Aveva ragione.