Spopolamento dell’Irpinia e fuga cervelli

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Agosto, per i paesi dell’Irpinia, è il mese del ritorno. Ritorno dei paesani che vengono a passarvi le ferie, per riaprire case disabitate e ristrutturate con i fondi del terremoto, per salutare i vecchi genitori o, magari, per far conoscere ai loro figli i luoghi dove sono nati e perché attratti dalla nostalgia delle montagne, dei paesaggi, dei linguaggi dei quali hanno perso l’uso e l’accento. Ma i paesi non sono più gli stessi che hanno lasciato quando se ne sono andati al Nord in cerca di lavoro. Ora li trovano ben squadrati, con le strade acciottolate, le case tinte a nuovo, le fontane e le piazze con le panchine ed i pali di illuminazione in ghisa. Sono scomparsi gli asini, mezzo di trasporto di una volta e le capre che lasciavano dappertutto le loro tipiche escrementi. Non vi ritrova le strade che l’hanno visto bambino, non i muri scrostati, non i tetti pendenti, le scale di pietra, i portoni di legno di castagno, le fontane per attingere l’acqua; non le pietre lavate dalla pioggia, non le siepi che odoravano di sambuco, non i greti dei torrenti, sui quali crescevano le canne e qualche gelso. Non sente più l’odore della natura che sembra anch’essa mutata, Sono scomparse le lucciole ma non le mosche segno di un inquinamento profondo.

Oggi, che la lunga stagione del cambiamento ha portato inesorabilmente alla fine della civiltà contadina e si è arrivati ad una trasformazione, in un certo senso, perfino antropologica, anche le cose esteriori appaiono mutate. Financo i panorami e le vedute, con le centinaia di pale eoliche e la cinipide, che ha devastate molte selve con le moltissime foglie ingrigite e rattrappite, che deturpano il bellissimo verde tipico dei boschi irpini, non sembrano più quelli di una volta e l’emigrante che ritorna non trova più il suo vecchio paese. Non ritrova i personaggi di allora, e questo è naturale che accada, ma non ritrova più neanche i luoghi della sua infanzia, non riconosce i posti, i vicoli, dove giocava da bambino, i portoni rifatti in alluminio, le vecchie pietre nelle quali cresceva il muschio. Non riconosce più neanche le abitudini. Ed anche le tradizioni, che una cultura di massa cerca di tramandare alla meno peggio, con sagre, fiere e spettacoli antichi, tolte dal loro contesto originario, sono altra cosa.

Anche la folla è cambiata. Non è più quella stracciona e anonima, senza protagonismo individuale, spesso silenziosa e con il capo chino per i pensieri e le ambasce quotidiane che è stata il vero motore del divenire e del progresso di queste contrade e ne ha costituito la molla e l’identità. La folla meridionale che assurge a protagonista della storia, intrisa di diversa umanità, non amorfa e senz’anima, incapace di compiere scelte razionali perché mossa dall’istinto della conservazione e che induce alla violenza, ma quella che ha creduto e sgobbato per progresso dei loro figli e per assicurare loro un futuro migliore del proprio. Oggi quella  folla di umili e e rudi, contadini è stata sostituita dal branco che non ha individualità: tutti uguali nel vestire, con il telefonino incollato all’orecchio o intenti a chattare sul web, scoprendosi populisti e razzisti e interessati al più aggressivo personalismo, che parlano male di tutti e sparano giudizi in linea con il loro pressapochismo culturale, alimentato da una televisione commerciale senza scrupoli che  impone e vende loro  prodotti e cultura di massa incapace di favorire alcun raziocinio.

E’ finito il concetto di Comunità nella quale ognuno portava un pezzetto del proprio impegno e lavoro. Oggi ci si affida ai profeti alla Salvini ed alla Di Maio: a chi la spara più grossa in tema di promesse, fino a cambiare destinatari quando le promesse, spesso impossibili, non si avverano. E’ successo con Berlusconi, poi con Renzi e succederà pure con i due profeti odierni. Non bastano le sagre e le fiere a rinverdire tradizioni, usi e culture che un consumismo di massa vorrebbe far credere di riportare in auge.  I paesi hanno perduto la loro identità e con essa è tramontato il concetto di Comunità e il visitatore di una certa età si trova spaesato di fronte ad un cambiamento non voluto ed a paesi che si desertificano e vanno scomparendo.

E’ scomparso quel Sud che fa dire al poeta Giuseppe Iuliano: “Per me esisteva solo il sud:/ quello di case basse/ e panni stesi/ di stazioni senza fermate/ dove la voce era tormento/ e il giorno una bestemmia di pane/Serti di edera/fragili e cocciute calamite/ di vita/inarcavano gemme/ da terre d‘arsura,/percorsi di carovana/ di donne in fila alla fontana/con orci di creta e rame a fare dispensa./ ( Da “Graffiti di terra” 1994).

di Nino Lanzetta edito dal Quotidiano del Sud