Ex Irisbus, l’ottimismo e i “cocci”

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Nella giornata trascorsa in Irpinia, Claudio De Vincenti ha lanciato corposi messaggi di ottimismo sul divenire della Valle dell’Ufita, area strategica per la provincia di Avellino ma soprattutto per le interconnessioni che essa è potenzialmente in grado di stabilire con quella parte del Mezzogiorno che attraverso il Corridoio Ottavo può diventare piattaforma e rampa di lancio verso i mercati dell’Est europeo, e non solo. Notare che gli ultimi fuochi della campagna elettorale referendaria alimentino un sovrappiù di ottimismo e certezze che il governo e i suoi rappresentanti spargono con prodigalità forse in eccesso, non vuol dire ferirne alla base intenzioni e progetti. Solo una registrazione, e per ricordare i tanti cocci che il Mezzogiorno si è ritrovato tra le mani all’indomani di magnifiche sorti e progressive che pure venivano date alla portata: quando questo è accaduto, è storia nota, gli unici a guadagnarci sono stati fior di speculatori e avventurieri sparsi. La premessa è necessaria per tornare su Industria Italiana Autobus, se essa “rappresen – ta un punto fondamentale della politica del governo” ed anche una sfida alla Fiat, oggi Fca, che nell’estate del 2011 chiuse i cancelli dell’Iri – sbus sotto il peso di 252 milioni di passivo accumulati nei dieci anni precedenti: “Iia ha dimostrato –ha detto De Vincenti a Marchionne- che si possono e si devono fare autobus in Italia”. De Vincenti viene da “La Sapienza” di Roma dove insegna economia e oggi, dopo essere stato l’uomo forte del Mise prima come sottosegretario e poi come vice ministro, dirige con ampia autonomia, anche rispetto a via Molise, la cabina di regia di Palazzo Chigi su crisi e reindustrializzazioni dopo la tempesta perfetta che dalla metà dello scorso decennio ha aggredito duramente le economie occidentali. Non è propriamente un politico di professione, e questo probabilmente gli consente di credere in ciò che pensa, ma a differenza di quelli è portato a trascurare i dettagli contenuti nelle variabili indipendenti che provocano scarti, deviazioni quando non l’af – fossamento di progetti industriali pure ottimisticamente acconciati. Tralasciando i misteri del percorso che ha consegnato alla newco di Stefano Del Rosso l’ex Irisbus e la Bredamenarini di Bologna e al netto delle numerose e imbarazzanti acrobazie del capitano coraggioso che commercializzava autobus cinesi (senza gran profitto, secondo i bilanci), proviamo a sintonizzarci, e a puntare, sull’ottimi – smo. Il successo di Iia si lega indissolubilmente agli investimenti del governo sulla mobilità, un comparto strategico a cui sono esiziali due elementi: la definizione di un piano nazionale e risorse tra i sette e i dieci miliardi, nei quali ci sono anche i soldi per acquistare da Iia una parte consistente dei 500 autobus (1/3 costruiti a Bologna; 2/3 in Valle Ufita) che garantiscono il pareggio di bilancio. Così cominciò anche Iveco nella seconda metà degli anni Settanta, grazie al Piano Autobus di governo e regioni: mantenne una media di 600- 700 unità di prodotto l’anno, con il picco di 1.500 nel 1990, anno dei mondiali di calcio, quando i dipendenti di Valle Ufita sfioravano i 1.500, fino alle 300 dell’ultimo anno di produzione: un percorso costellato dai frequenti periodi di cassa integrazione perché il Piano Autobus non garantiva certezza di continuità. Oggi le variabili indipendenti, che cioè non dipendono da noi, dicono che quel percorso è possibile soltanto fino ad un certo punto: si sottovaluta e in questa fase si mette da parte lo scoglio che Bruxelles è pronta a mettere sul campo: l’acquisto di autobus diventa aiuto di Stato se non avviene tramite gara europea. Le variabili dicono anche un’altra cosa: che quello dei bus è intanto un settore di nicchia le cui fette di mercato sono di fatto nelle mani di 4-5 grandi produttori europei e asiatici. Entrare in questo mercato, almeno per conquistare uno spicchio, è fondamentale per la sopravvivenza del cosiddetto Polo italiano degli autobus, persino prioritario rispetto al circuito domestico degli acquisti. Ma questo significa ricerca, innovazione, eco compatibilità, design, in una parola investimenti a latere non da poco. Qui è l’altro corno dell’ottimi – smo. Industria Italiana Autobus parte con 25 milioni di euro: 17,8 sono stati concessi da Invitalia, di cui 6,8 a fondo perduto e 11 di finanziamento agevolato da restituire. Il piano industriale prevede che a gennaio 2017 uscirà da Valle Ufita il primo bus mentre nel frattempo, dal prossimo mese, comincerà la riqualificazione professionale dei 297 dipendenti. Il piano industriale finalmente è stato reso noto; di quello finanziario, a meno che non si basi sugli acquisti dati già per fatturati da parte di governo e regioni, non si ha notizia. Un elemento questo, affatto secondario che sintetizza brutalmente la domanda: i soci di Industria Italiana Autobus quanto, come e in che tempi moduleranno propri investimenti per la rinascita produttiva di aziende e annessi patrimoni che sono stati loro conferiti per zero euro? Se De Vincenti ha ottenuto risposte a queste domande, e ci piacerebbe esserne certi, possiamo ritenerci comunque garantiti. Abbiamo soltanto ricordato che quella di contare i cocci è una stagione che il Mezzogiorno, e l’Irpinia, vorrebbero mettersi definitivamente alle spalle.
edito dal Quotidiano del Sud