La vittoria di Trump vista dall’Europa

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Nell’intervista al “Messaggero” di ieri, firmata da Maria Latella, l’ambasciatore americano a Roma John Phillips cerca di tranquillizzare l’opinione pubblica italiana ed europea, o almeno quella parte di essa che è ancora traumatizzata in seguito all’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Alla domanda se cambierà, e come, la politica estera degli Usa, il diplomatico risponde con circospezione: “Quando entri alla Casa Bianca con te entra anche la realtà. Abbiamo analisti capaci che saranno di aiuto alla nuova amministrazione”. Come per dire che lo staff di cui il miliardario populista si circonderà sarà in grado di contenere i suoi eccessi e di indirizzare la sua politica sui binari di una rassicurante correttezza. Si vedrà. Del resto, come tutti i suoi colleghi nominati dall’amministrazione democratica, John Phillips sta per lasciare l’incarico, e quindi deve essere più prudente del solito (non lo fu quando recentemente dette l’impressione di consigliare il Sì al referendum costituzionale italiano, cosa che fu letta come una inaccettabile interferenza nelle decisioni dell’elettorato). Ma, al di là delle cautele diplomatiche, che cosa ci si può aspettare dal presidente Trump, da questa sponda dell’Atlantico? Intanto non illudiamoci che l’Italia sia fra le sue prime preoccupazioni, né che conosca bene i problemi e la realtà del nostro Paese. A quel che se ne sa, il prisma da cui guarda verso di noi è quello offertogli dal suo amico Flavio Briatore, che ha portato in Italia il programma tv “The apprentice”, che ha contribuito alla fama del tycoon in America e ne ha costruito il personaggio: uno sbruffone dai modi sbrigativi tendenti alla volgarità. Non è molto, anche se si capisce che oggi Briatore ostenti il suo rapporto diretto col nuovo presidente e cerchi di dipingerlo in modo rassicurante (“E’ prima di tutto un imprenditore che tende al risultato. Vedrete, l’America tornerà grande”). Intanto, se è vero che il l’icona Trump è piaciuta a molti americani che l’hanno votato, l’enigma resta per chi da lontano deve ancora decifrarne le intenzioni. E le prime mosse creano sconcerto. Spicca fra tutte la telefonata alla premier britannica Theresa May, già invitata alla Casa Bianca repubblicana e gratificata di parole molto cordiali: “Il Regno Unito è un luogo molto, molto speciale per me e per l’America. Questa relazione speciale diventerà ancora più forte”. Una frase che avrà gelato il sangue alle diplomazie di Bruxelles e di molte capitali europee, quelle in particolare che erano fino a ieri decise a far pagare cara a Londra la decisione di abbandonare l’Unione. La conferma della “preferenza” americana per un’Inghilterra che si distacca dal Vecchio continente in nome di principi ora condivisi dal nuovo presidente americano – protezionismo, xenofobia, chiusura delle frontiere – lascia intravedere una nuova concezione dell’atlantismo e forse la nascita di un’asse fra i governi per i quali il populismo si coniuga con nazionalismo e rifiuto della globalizzazione. Il pensiero corre inevitabilmente alla Polonia, alle repubbliche dell’Europa dell’Est ora guidate da coalizioni di destra, ad una Francia che potrebbe fra un anno vedere Marine Le Pen all’Eliseo, all’Austria che eleggerà il nuovo presidente il 4 dicembre, il giorno stesso in cui da noi si vota sulla Costituzione. Se Donald Trump prendesse la guida ideale e politica di questa variopinta carovana, sarebbero in molti, fra i tradizionali alleati degli Stati Uniti, a doversi riposizionare in un quadro politico internazionale in grande movimento. Per il momento, da Roma è stato Matteo Renzi ad alzare il telefono per ricordare a Trump l’appuntamento per il prossimo G7 di Taormina, mentre i primi commenti da Berlino e Parigi al cataclisma elettorale americano fanno trasparire preoccupazione e imbarazzo. Ce n’è motivo.
edito dal Quotidiano del Sud