Le nuove geografie politiche

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Tra gli effetti possibili del referendum costituzionale c’è quello di una diversa geografia politica soprattutto in caso di vittoria del Sì. Obiettivo di Matteo Renzi è da un lato quello di svuotare l’elettorato moderato in uscita a causa del declino politico di Berlusconi e dall’altro di prendere sempre di più le distanze dalla sinistra del suo partito. Un obiettivo per la verità non nuovo ma che potrebbe prendere forma con un Renzi più forte se dovesse vincere la partita del 4 dicembre. Il progetto resta molto ambizioso e ha una forte dose di rischio. A partire dal fatto che isolando le due vere opposizioni politiche a contendere il campo a Renzi resterebbero solo i Cinque Stelle che al momento fanno ancora fatica a passare da movimento anti sistema ad un partito pronto per il governo del paese. Il caso Roma è emblematico. Una sindaca alle prese con difficoltà interne ed esterne crescenti e una classe dirigente che deve affidarsi a professionisti che non fanno parte in modo organico del movimento. Altro rischio è quello di una divisione infinita all’interno del suo partito. Bersani con una battuta sostiene che ci vorrà l’esercito per cacciarlo da quella che ritiene casa sua. In questi giorni il Partito democratico ha compiuto i nove anni di vita. Determinante fu l’apporto non solo degli esponenti politici ma anche di comitati civici composti da cittadini semplici, militanti di base, intellettuali, riuniti sotto le insegne dell’Associazione per il Partito democratico, e iniziarono a girare teatri e piazze per sollecitare la nascita del nuovo soggetto politico che "finalmente avrebbe traghettato il centrosinistra italiano verso la modernità". Anche allora però accanto a questi ultrà della fusione c’era chi frenava e la divisione riguardava gli esponenti e i militanti della Margherita (eredi della DC e del PPI) e quelli dei DS (eredi del PCI). Una divisione che oggi non è possibile riproporre in questo identico schema tra i sostenitori del Sì e del No al referendum ma certo la storia di questi anni è stata piuttosto travagliata. Ed è forse per questo che il PD resta sempre un partito che deve tenere insieme quelli che corrono troppo e quelli che invece indugiano alla partenza e chiedono sempre un attimo in più di pazienza e di attesa. Renzi si gioca la partita più importante da quando è entrato in politica e lo fa da Palazzo Chigi puntando sulla stabilità e governabilità e incassando l’appoggio sia degli Stati Uniti con il sostegno ribadito direttamente dal Presidente Obama che dei grandi gruppi economici italiani. Venticinque anni fa quando si votò il referendum sulla preferenza unica il potere di allora con in testa Bettino Craxi invitò gli italiani ad andare al mare. Il paese reagì in modo plebiscitario e sommerse con una valanga di sì la scelta del segretario socialista. Insomma vinse chi stava all’opposizione. Ma stavolta il cambiamento lo propone chi governa. E’ Renzi da Palazzo Chigi ad invitare gli italiani a cambiare. Un rovesciamento di posizioni notevole rispetto al ’91. Riannodare il filo del tempo significa insomma capire come a distanza di 25 anni si è trasformato il rapporto tra politica e cittadini e Mario Segni che promosse quel referendum oggi dice “quel voto fu usato per mandare un chiaro segnale all’establishment. I referendari furono visti come l’onda oppositiva al potere ma l’opera non è stata mai completata perché accanto alla spinta popolare non fummo mai maggioranza in Parlamento. Abbiamo creati ponti tra politica e paese, sui quali però sono passati altri”. La partita alla fine è tutta qui. Renzi che quel ponte ha attraversato deve adesso restarci, gli altri proveranno a buttarlo giù.
edito dal Quotidiano del Sud