Lezione inglese per l’Italia

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L’avvicinarsi del tornante che apre la terza decade del nuovo millennio impone una riflessione sulla geografia di un mondo che sta cambiando sotto i nostri occhi e che solo un osservatore superficiale potrebbe definire in termini che non siano epocali. Per restare ai più recenti dati di cronaca, lo storico Donald Sassoon, allievo di Eric Hobsbawn, che fu il narratore del “secolo breve”, ha descritto il risultato delle elezioni in Gran Bretagna come “la crisi più grave dalla fine della seconda guerra mondiale, più di Suez e più della decolonizzazione”: vuol dire che un altro mondo sta finendo in un angolo della vecchia Europa; ma mentre la crisi degli anni Cinquanta seminava i germi della globalizzazione che qualche frutto positivo l’avrebbe portato, quella che oggi stiamo attraversando apre nuovi scenari di nazionalismi o di sovranismi, come oggi si preferisce definirli, gravidi di incognite sul nostro futuro.

Se l’analisi è corretta, e il passare del tempo rapidamente lo confermerà, c’è proprio da temere, perché i nazionalismi tendono naturalmente a confliggere tra di loro, e del conflitto è il più debole che fa le spese. A modo suo, la Gran Bretagna di Johnson e della Brexit ha interpretato il cambiamento imminente, anzi si propone di intestarsene la guida e gli obiettivi, promettendo un domani all’insegna della democrazia e della crescita economica alimentata da un rapporto speciale con l’America di Trump tutto da costruire. Per quanto il passo compiuto verso l’uscita dall’Unione europea lasci l’amaro in bocca ai partner di un tempo, sulle premesse democratiche della decisione degli elettori inglesi non si può non consentire. In tre anni e mezzo, da quando si tenne il referendum sull’uscita del Regno Unito, per due volte in elezioni anticipate i sudditi di Sua Maestà si sono espressi in favore della Brexit, i cui tempi di conclusione sono ora da concordare con Bruxelles, mentre la volontà manifestata è palese.

E da noi? L’interrogativo si pone anche in termini drammatici, perché l’accelerazione di un processo che si è rivelato irreversibile al di là della Manica, non può non farci riflettere sulla lentezza, la staticità dell’evoluzione politica in Italia. Il recente rapporto del Censis ci restituisce l’immagine di un Paese impoverito e incattivito, deluso dalla politica e scettico sul futuro: pronto a consegnarsi alle cure di un “uomo forte”, avendo sperimentato sulla propria pelle il fallimento delle ricette suggerite dal metodo democratico e variamente proposte dai leader politici che hanno calcato la scena degli ultimi decenni. Il raffronto con la Gran Bretagna e la Brexit dà un risultato disastroso per noi: lì le problematiche connesse alla globalizzazione (impoverimento delle classi medie, fenomeni migratori, ostilità all’Europa unita) hanno prodotto una reazione forte, uno scatto d’orgoglio, un moltiplicatore di capacità decisionale; da noi, invece, domina una sorta di spaesamento che comunque ci pone ai margini del mondo globale senza aprire prospettive nelle quali riconoscere e investire energie che pure non mancano. Non è affatto detto che la ricetta di Boris Johnson sia quella giusta, anzi ci permetteremmo di dubitarne; però al leader britannico, così simile nel bene e nel male a Donald Trump, va riconosciuto il merito di aver indicato una strada ai suoi concittadini e di averli convinti a percorrerla sotto la sua guida. I balbettamenti della politica italiana, capace solo di bruciare una leadership dopo l’altra senza dare a nessuno il tempo di realizzare i propri programmi, contrastano con la diagnosticata attesa dell’uomo forte, anzi forse ne sono la premessa. Un avvitamento destinato a compromettere la democrazia.

di Guido Bosa