Rosso Speranza e il nichilismo degli adulti di oggi, se il cinema d’autore fa sempre fatica ad arrivare in sale

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Una sera di fine agosto, in occasione dell’inizio della nuova stagione cinematografica, quest’anno sostenuta dall’offerta di ingresso al prezzo scontato di 3,5 euro per i film europei, ho avuto il desiderio di andare al cinema. Trovandomi a Caposele ho cercato nei titoli proposti dai cinema della provincia  e, oltre al pluriproposto Oppenheimer, in programmazione in tutti i cinema ed anche in più sale di uno stesso multiplex, l’attenzione mi è caduta su di un film italiano in concorso al blasonato festival del cinema di Locarno: “Rossosperanza” della regista Annarita Zambrano, in programma al Multimovie di Mercogliano. Dopo la visione ho voluto fermare alcune riflessioni: una mini recensione che qui riporto.

Annarita Zambrano al suo secondo film si conferma come una dei pochi registi italiani attenta alle problematiche della società in cui viviamo, rifuggendo dalle tematiche più in voga, con un’angolazione sua personale ed originale.

In prima lettura “Rossosperanza” può sembrare un film sui giovani, attraverso le storie di ospiti di una casa esclusiva di rieducazione. Ma la narrazione di queste storie ci fornisce un affresco, e ne sono una impietosa cartina di tornasole, della società degli adulti ormai ridotta ad un nichilismo nei suoi valori etici e morali, sempre più arroccata a difesa dei propri privilegi: scopre l’esistenza dei figli , e comunque ne delega la rieducazione, soltanto quando questi la fanno grossa (probabilmente anche per dare un segnale della loro esistenza).

Una recentissima corrente filosofica francese, anche a seguito delle ultime rivolte sociali in Francia, ipotizza una situazione ante 68: i giovani di Annarita Zambrano non trovano ancora una consapevolezza delle loro problematiche e conseguentemente un’analisi ed un terreno comuni per un fare politico, ma esprimono una situazione di rivolta individuale, autolesionista o legata al singolo gesto offensivo.

Ci penserà una tigre – metafora dell’Africa, del terzo mondo che avanza o della forza della natura che alla fine prevale? – a fare “piazza pulita” di una società putrida, piccina, avvinghiata al potere, chiusa in se stessa e sui propri privilegi.

Un film che vagamente mi ha riportato alla “Dolce vita” di Fellini, non a caso degli anni 60.

Anche nello stile, rispetto al primo film “Après la guerre” prodotto in Francia e caratterizzato da un ritmo più aperto alla riflessione, Annarita Zambrano ha cambiato completamente registro, esprimendo un ritmo più accelerato, più proprio di questo tempo e comunque più vicino alla società che vuole rappresentare e soprattutto alla parte giovanile.

Il film, tra l’altro girato in parte in Campania, dopo una settimana di programmazione è scomparso da tutte e tre le province del centro sud della Campania (Avellino, Benevento e Salerno): è stato proiettato soltanto nel periodo 24 – 31 agosto. E’ inevitabile per me rammaricarmi che la circolazione nelle sale di film che possano stimolare pensiero, riflessioni ed eventualmente dibattiti debbano trovare così poca diffusione e siano spesso visibili soltanto nelle sale dei festival.

Chi ama il cinema, ed ancora lo considera la settima arte, è costretto ad un nomadismo fruitivo da un festival all’altro. Il grande successo di pubblico con un record di presenze e di biglietti venduti della Mostra del Cinema di Venezia appena conclusasi, ne è una evidente conferma. Visioni diverse dalla sala , soprattutto per film concepiti per la sala, non esprimono il film nella sua pienezza, ma ne sono a mio parere una forma riduttiva di fruizione. Questo non significa che tutte le altre forme di visione dell’articolato mondo dell’audiovisivo non abbiano una loro dignità e validità importanti, ma sono proprie nei confronti di opere già realizzate in funzione di tale diffusione.

Ernesto Caprio