Zaccagnini, democristiano atipico

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Fare politica oggi è soprattutto ricercare e conquistare il potere e allora ricordare a trent’anni dalla morte una personalità come Benigno Zaccagnini fa ancora più effetto. Un democristiano atipico che il potere non l’ha mai cercato, anzi era stata la politica a cercarlo, quasi ad inseguirlo. Gli si era imposta come un dovere. Tra i tanti anedotti che lo riguardano c’è quello relativo ad un incontro con Papa Giovanni XVIII. Tu sei Zaccagnini? Gli chiese un giorno il Pontefice, non ebbe il tempo di rispondere e si sentì subito aggiungere: “Ho sentito parlare molto di te. Capisco perché: la tua faccia è come la tua anima”.   Toccò a lui nel lontano 1975 riannodare i fili di un consenso che sembrava perdersi tra la DC, autentico partito-Stato e la società dell’epoca. Un’Italia molto diversa da quella di oggi. Oltre quarant’anni fa il Paese guardava ai nuovi diritti e la vittoria del referendum sul divorzio ne era la prova mentre in politica l’asse si spostava a sinistra. Il Partito Comunista guidato da Berlinguer conquista le principali città italiane e in molti ipotizzarono il sorpasso sulla Democrazia Cristiana alle elezioni politiche. La DC si affida allora al mite Zac, al medico pediatra che ha un obiettivo preciso: innovare e riformare il partito ed il Paese dall’interno del sistema. La sua ascesa alla segreteria della DC avviene proprio nel ’75 e l’anno successivo alle politiche il temuto sorpasso non c’è. La Democrazia Cristiana resta il primo partito e cominciano gli anni della collaborazione con il PCI. I governi di solidarietà nazionale, l’esperienza che si chiuderà drammaticamente con l’assassinio di Aldo Moro. Zaccagnini è l’uomo che favorisce l’incontro tra la cultura laica e quella cattolica in un tempo di duro scontro ideologico. Nel suo ultimo intervento il 20 ottobre 1989 nella Sala del Ridotto del Teatro Bonci di Cesena, si legge: “la politica è cercare di capire le grandi cose, per dare ad esse un senso, per intervenire possibilmente affinché si svolgano secondo un fine, nella consapevolezza che tutto è strumento (anche il partito è strumento) e lo strumento si nobilita in relazione al fine che si vuole raggiungere. Uso il termine vocazione perché essa è ciò che ha caratterizzato l’avvio al nostro impegno politico, è ciò che oggi, a questo livello, può richiamare, deve richiamare, la necessità di recuperare l’aspetto più profondamente umano della politica”. La vocazione, in termine tecnico, “la chiamata”, è scoprire non tanto “per cosa dobbiamo fare politica” ma soprattutto “per chi” farla. Una distanza enorme in queste parole con la politica attuale dove tutto è invece rivolto ai personalismi, all’annuncio mediatico, alla propaganda. E c’è un ricordo che lega Zaccagnini all’Irpinia e alla “mia” Ariano. Una foto lo ritrae in una piazza Plebiscito stracolma, il 4 agosto del 1978. L’allora segretario della DC è sul palco e accanto a lui c’è un altro galantuomo della politica: Giovanni Grasso. Due uomini simili, due personalità che hanno fatto della mitezza il loro tratto distintivo. Dialogo e confronto come metodo, mai imposizione di una scelta ma sempre spazio alla condivisione. Il Capo dello Stato Mattarella che fa parte di questo filone politico-culturale ha ricordato a Ravenna che “c’era del fascino nel legame così stretto che Zaccagnini aveva con la sua città e insieme la sua apertura verso l’altrove. Questo rifletteva il senso di umanità profondo che lo muoveva perché la politica non può essere disumana e nel suo ultimo discorso pubblico nell’ottobre di 30 anni fa Zaccagnini parò dell’esigenza di offrire ai giovani un orizzonte di ideali, una prospettiva di valori per evitare l’inaridimento. Inaridirsi è il pericolo che si corre, Un messaggio per il nostro presente”.

di Andrea Covotta