Annusare la rosa che non c’è, Arminio e il miracolo della poesia

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di Milena Montanile

L’incontro conclusivo dei Giorni della Letizia, promossi a Bisaccia dalla Casa della paesologia (29 dicembre-3 gennaio) con la direzione artistica di Franco Arminio,  credo sia stato uno dei punti più alti di un ‘viaggio’ che ormai caratterizza da tempo il percorso artistico di questo straordinario poeta: poeta-profeta delle passioni e delle emozioni, capace di attrarre, con la sua poesia e con la sua parola, fiumi di persone, letteralmente affascinati dalla contagiosa e straripante vitalità del poeta-interprete della sua poesia, e dalle straordinarie performance nelle quali sono coinvolti, oltre ai figli, Livio e Manfredi, autentica colonna sonora della sua vita,  artisti di valore, da Peppe Voltarelli, concertista di fama, a Dario Brunori, cantautore di San Fili (CS) alle Assurd (Lorella Monti, Cristina Vetrone, Chiara Carnevale, Fulvio di Nocera) a Peppe Leone, musicista ‘popolare’ di “fronna e canto” e tarantelle, con tamburo e tamburello, interprete originale di tammuriate, ai Makardia, a Gerardino de Gianni, a Eduarda Iscaro, a Caterina Pontrandolfo (indimenticabile la forza timbrica e la forte ‘presenza’ scenica tra i calanchi di Aliano), a  Franceso Lapenna, clarinettista della tarantella montemaranese. Tutti artisti ai quali preferibilmente si affianca in vere e proprie rappresentazioni…. ma, direi, forse, – in maniera più suggestiva, in riferimento alla sua idea del ‘sacro’, esemplarmente stigmatizzata in Sacro minore –  in vere e proprie ‘sacre rappresentazioni’, tenute da sempre nei luoghi-simboli della sua poesia, che sia Bisaccia, Oscata, Morigerati, Aliano, Ossana, Val di  sole….: tutta una costellazione di borghi dimenticati che diventano  il percorso privilegiato di Arminio, spinto dal bisogno di ‘fare’ sempre e ad ogni costo,  “di capire, di trovare una soluzione” . Un muoversi “senza tregua” che lo porta costantemente all’assalto, “per guadagnare una tregua al pericolo” (Canti della gratitudine) e lo accompagna in un continuo e quasi ininterrotto pellegrinare, in giro per ogni angolo, più o meno dimenticato, del Paese. Sono i luoghi in cui più evidenti e sofferti affiorano gli effetti dello spopolamento contro cui Arminio  combatte da anni, e  dai quali parte il suo grido di allarme,  in favore della verità delle cose semplici, della natura, dell’amicizia, contro la dittatura dell’io e dell’individuale, spinto fino al parossismo. Quasi un settimana dedicata a raccontare il territorio e il Mezzogiorno e in cui gli spunti di riflessione sono stati tanti, nell’intento di  contrapporre, alla solitudine e alla rassegnazione, il dialogo,  il “dolore e la dolcezza dello stare insieme”, il conforto, il piacere della condivisione, dati come unica  via  per ridare slancio ai borghi dimenticati, colpiti dalla piaga dello spopolamento, e l’ unica via per riappropriarsi “in letizia”, tra canti e balli, sempre ispirati alle tradizioni melodiche mediterranee, della bellezza della vita, dei tesori della natura, di cui è espressione, accanto alla poesia, la musica e la danza, che non a caso ha scandito,  con la sua forte carica liberatoria, i momenti più belli e coinvolgenti di questo straordinario evento.

Il pomeriggio conclusivo, dedicato, come da programma, alla presentazione dei Canti della gratitudine, ultimo suo libro, fresco di stampa, edito da Bompiani,  si è tenuto mercoledì 3 gennaio, in parte nel Centro culturale evangelico “Dietrich Bonhoeffer” per proseguire poi nella Casa della Paesologia: suggestiva l’immagine del pubblico trasmigrante che evocava, nella ‘scena’ delle tante ‘passeggiate’ che, come di consueto, caratterizzano i raduni  e gli incontri con Arminio, la festosa ‘letizia’ di “nuove comunità transumanti”: anche in questo caso  l’incontro è andato avanti, gioiosamente, tra cibo condiviso, ‘parlamenti’, conversazioni, musiche e canti, fino a notte inoltrata. L’occasione che ha spinto tanti  suoi “seguaci” ad accompagnarlo in questa ennesima performance è stata, come si diceva, la presentazione dei Canti della gratitudine che, a mio parere, costituisce il punto di approdo di un lungo percorso, avviato nel 2017 con Cedi la strada agli alberi, e giunto, attraverso La cura dello sguardo. Nuova farmacia poetica (2020), una singolare silloge prosimetra, al momento più densamente esplicativo della sua poesia, esemplarmente condensata in Sacro minore (2023): una parabola intessuta di ritorni, di riprese, di chiarimenti, sparsi in altri suoi scritti, che trova felice compimento in questo libro, dato in luce nei primissimi giorni di quest’anno.  Ma chi frequenta Arminio sa bene che è oltremodo vano attendersi dalle sue presentazioni il tradizionale monologo dell’oratore di turno, seppure profondamente esperto nella lettura e nell’analisi di testi poetici. Arminio, com’è ormai ben noto a tutti i suoi innumerevoli  lettori, preferisce vivere e far vivere la poesia, ben convinto dell’enorme potenzialità della ‘parola poetica’, della necessità di farne “buon uso”,   e offrendo se stesso  come testimone vivente del suo ‘fare poetico’. Egli stesso ha ammesso, senza remore, ad apertura della serata, che gli incontri organizzati per presentare i suoi libri finiscono per essere il punto di partenza per una serie di confronti, di spunti, di riflessioni che coinvolgono tutti e nei quali tutti possono riconoscersi. Riflessioni che riguardano la solitudine, la rassegnazione, il dolore: mali che affliggono l’uomo nel deserto delle passioni tristi, di fronte ai quali Arminio rilancia la sfida consolatoria dei suoi versi, interrogando un tema piuttosto arduo, quello della gratitudine, intesa come energia positiva, una forza in grado di frenare il declino di simboli, memorie e valori, aggravato dallo spopolamento, per condurci verso una nuova dimensione dell’umano, aperta alla gentilezza, alla grazia, al perdono, ma anche alla ‘verità’ delle cose semplici, della natura e dei borghi dimenticati. La gratitudine, scrive nei Canti della gratitudine,  è un modo di essere,  “è una postura da costruire, è un piegare i ferri del nostro io […] è una conquista, non è un abito che si indossa”.

Sono questi i temi che Arminio, poeta “ambulante”, come pure ama definirsi, porta avanti, instancabilmente, in giro per l’Italia  impartendo la sua lezione di ‘umanità’, e offrendo le sue parole come fiaccole per illuminare il presente.

Come di solito accade nei tanti reading da lui o per lui organizzati, Arminio riesce a tenere ben a freno il rischio di un’eccessiva esibizione del sé (un ‘difetto’ che pure gli è stato imputato da parte dei soliti invidiosi malevoli), per niente interessato ad esibirsi, ad occupare il centro della scena in uno sterile ’assolo’.  La manifestazione cui ha dato vita si è distinta per una coralità gioiosa che ha coinvolto il numeroso e festoso pubblico intervenuto. Non a caso questi Canti della gratitudine prendono avvio dall’idea della poesia come esperienza comunitaria, addirittura terapeutica, che fa leva sul potere trasformativo della parola, capace di opporre una resistenza salvifica a quella cultura della sfiducia e del sospetto su cui allignano i mali della società odierna. In Per chi scrivo, quasi una dichiarazione di poetica, Arminio si fa poeta dell’amore, della solidarietà e della fratellanza “Canto la ferita dei non amati,/la pena di chi non vuole/essere vecchio./Vorrei essere il vicino di lacrime,/il custode delle passioni/a cui è scaduta la licenza./Io scrivo per voi,/per chi non trova pace./Nessun dolore  avrà mai/la mia indifferenza”.

Ma fin dalle prime battute del libro affiora l’enorme potenziale racchiuso nella ‘parola poetica’. E di questa ‘parola’ Arminio si serve per esprimere tutta  la sua gratitudine a chi fa “buon uso delle parole”, perché “la parola è sacra,/è un pugno o una stella”.  Esemplare  la dedica del libro: “A chi sa dire grazie,/a chi risponde con un gesto d’affetto/per se stesso e per gli altri/a ogni errore che fa o che subisce./Alla neve del mio paese, ai calanchi di Aliano,/alle capre di Roghudi”.

Su questa base Arminio rinnova la tradizionale forma del brindisi “Brindiamo alla bellezza sprovveduta/ai ribelli, ai vulnerabili,/a chi ha le ossa ardenti,/a chi prende sul serio/ i propri luoghi, a chi ha tempo/per aggirarsi nei dintorni./Brindiamo a chi lavora la terra, all’acqua per il suo parlare/alle radici,/al sole, silenzioso badante/delle foglie,/Brindiamo a chi è qui a nutrirsi,/assieme a noi,/tante bocche, un solo cuore”.

Si comprende  bene allora l’entusiasmo con cui è stato accolto il ‘duetto’ di Arminio con Dario Brunori, un sodalizio collaudato nel tempo, che ha visto in scena due autentici giganti della musica e della poesia: Brunori, cantautore e polistrumentista, ha ‘giocato’ con Arminio, ‘scambiandosi’ con lui quasi il ruolo ‘di spalla’, e offrendo una tra le migliori interpretazioni del brano d’esordio Come stai? E Armino, a sua volta, nella sua ouverture, ha ribadito la necessità di aprire il cuore alla meraviglia e alla  fratellanza, invitando a prestare maggiore attenzione alle cose, anche minime del quotidiano, al piccolo gesto che può sorprenderci e regalarci attimi di gioia: un modo di essere che ci dispone a una connessione più profonda con la natura ‘vera’ delle cose, aprendoci alla grazia, alla gentilezza, alla generosità, tutti valori che l’umanità, sempre più frettolosa e distratta, sembra aver smarrito. E non a caso invoca come auspicio per l’anno, da poco iniziato, “l’anno dell’attenzione”: “ci vorrebbe”, dice, “l’anno dell’attenzione”, una spinta propulsiva utile a ridare voce “al silenzio, alla luce, alla fragilità”, le uniche risorse capaci di offrire un antidoto ai mali di una umanità spiritualmente impoverita e malata. Sono, questi, i temi a lui particolarmente cari, e a lungo dibattuti, che hanno dato luogo – e non a caso in pieno lockdown – alla silloge La cura dello sguardo, edita sempre da Bompiani nel 2020: “In un tempo in cui si parla di distanziamento dagli altri, bisogna procurarsi un distanziamento da se stessi, incarnarsi veramente nell’aria del mondo, essere soci  della luce, mettersi al servizio delle cose. La nostra vocazione non è le cattura. Siamo animali di premura”. Una riflessione che condensa tutta la sua poetica, ed esprime la volontà di favorire una nuova percezione dell’umano, possibile proprio attraverso la ‘cura dello sguardo’, che acquista una valenza più pregnante rispetto al semplice atto dell’osservare, per includere la capacità di affinare la percezione di ciò che ci circonda, ma anche di entrare in sintonia con esso: “Spesso ci accorgiamo di quello che abbiamo solo quando lo perdiamo: l’amore, la salute, un affetto, un’amicizia”, chiosa in  una bella intervista, rilasciata qualche mese fa a Laura Corigliano (Irpinitaly, maggio-giugno 2023). E tutto il libro (sottotitolato Nuova farmacia poetica)  ruota proprio  intorno a questo tema, la ‘necessità’ cioè di esercitare lo sguardo, di cogliere nei momenti bui della nostra vita, nella solitudine delle notti insonni, in cui siamo soli di fronte alle nostre ossessioni, l’infinito che si cela dietro al finito delle cose piccole, anche minime, del quotidiano.  “Bisogna provare a cantare il proprio inno e alzare il piano dell’esistenza”, esercitando uno sguardo dolce e clemente verso la natura e gli uomini, perché “è proprio lì che il mondo finisce per aprirsi a un nuovo inizio”. Si tratta di un bisogno che è anche un “dovere” nei nostri confronti e “dell’umanità in cammino”,  che ci aiuta a guardarci intorno, a osservare con attenzione ciò che ci circonda, “per riuscire a cogliere un momento di illuminazione e di grazia”, e ci consente di divenire, con dolcezza e consapevolezza, “cercatori d’infinito”: “Personalmente”, confessa, “lascio la porta aperta: ci sono momenti in cui percepisco l’infinito e sento di farne parte” (Intervista cit.). E un’ansia d’infinito pervade tutta la sua opera, un anelito di cui Arminio si fa  interprete proprio attraverso la poesia, sostenuto dalla pratica del suo vivere quotidiano: “L’uomo deve rallentare, deve ricominciare a comunicare con ciò che lo circonda: abbiamo la superbia di pensare che noi siamo gli unici attori di questa commedia chiamata vita”(Intervista cit.). E che sia, egli stesso, un convinto ‘cercatore d’infinito’, lo prova la forte carica emotiva che trasmette al pubblico affascinato dalla sua parola, nel momento in cui  propone, in una sorta di rituale laico, la recitazione, ‘silenziosa’,  ricorrente in quasi tutti i suoi incontri, del leopardiano Infinito.

Con lo sguardo esercitato del paesologo che ha battuto in lungo e in largo una moltitudine di paesi, sparsi nelle zone più desolate dell’Irpinia d’Oriente, della Lucania, ma anche di altri, innumerevoli, luoghi sperduti d’Italia (egli stesso dichiara di averne visitati, ad oggi, circa quattromila),   Arminio affida la sua parola alle più svariate forme espressive (versi, epigrammi, aforismi), rese a tratti, tra suggestione visiva e ‘racconto’; una ricerca che continua anche oltre la scrittura, in quella passione ormai conclamata per la fotografia da lui vissuta come una sorta di “auto-osservazione ossessiva” (“Corriere della sera”, 1 dicembre 2023), con immagini intimamente connesse al suo sentire poetico. Immagini folgoranti, in grado di svelare, attraverso un semplice scatto del suo telefonino, realtà invisibili o “fuori luogo” di fronte alle quali Arminio, “fotografo non praticante che fa lo scrittore”, come ama definirsi,  si muove con perizia, agevolato dal suo ‘sguardo’ benevolo e attento, esercitato a cogliere “frammenti visivi” di un mondo che va scomparendo, e di cui residuano solo immagini sbiadite (piazze deserte, focolari spenti, porte chiuse, case diroccate). Scattare fotografie è, dunque, per lui un gesto d’affetto, un modo per donare vita a ciò che rischia di andare smarrito: “Guardare ciò che c’è fuori di noi, scrive, dà significato alla vita: è un ottimo modo di vivere […] che ci predispone a uno stile di vita incline alla clemenza. Ci predispone cioè ad uno sguardo che sa accarezzare ciò che è  piccolo e dimenticato”. E proprio la centralità dello sguardo nell’universo poetico di Arminio spiega la forte attrazione per la fotografia. E cioè per lo ‘scrivere per immagini’, “dove il guardare viene prima dello scrivere”, ma dove immagini e poesia si fondono, o meglio, convivono in perfetta sintonia in chiave, appunto, ‘paesologica’. Egli stesso afferma come ad anticipare i pensieri ci siano una serie di parvenze:  “un soffio visivo che alimenta la scrittura, un paesaggio interiore che affiora scrivendo”. La fotografia, praticata, così, da “archeologo della fotografia”, come pur è stato detto, gli consente di raccogliere  tracce visive che diventano squarci poetici, “scintille di senso”, “scarti”, residui di un mondo abbandonato ch’egli cattura come piccole sorprese pescate dall’ordinario, “per ricostruire un presente che possa essere passato prossimo attraverso immagini della memoria”, come felicemente annota Stefania Pieralice, curatrice della prima ‘Personale’ fotografica (Presenze, esercizi di paesologia), aperta a Roma nell’Università eCampus, partner dell’Esposizione Triennale di Arti Visive, dall’1 dicembre al 31 gennaio scorso. “L’immagine fotografica”, scrive Arminio in occasione della presentazione della Mostra “è sempre un po’ un memento mori, produce allo stesso tempo il congedo e l’immortalità”.

Arminio coglie e trasmette, proprio attraverso queste privilegiate forme espressive (la poesia, la prosa, la fotografia), quella dimensione di vuoto, di assenza  che si vela e si svela dietro all’immagine  delle “porte chiuse” nei tanti borghi abbandonati, in riferimento a quella dimensione di solitudine, di isolamento sociale che i tanti luoghi, svuotati  dallo spopolamento, rendono più palpabile nella loro scarna e drammatica nudità. Un condizione di disagio, di malessere che purtroppo non tocca solo questi luoghi, e che per Arminio, acuto osservatore delle cose e del mondo, si è acuita a dismisura, per diventare, soprattutto dopo l’isolamento imposto dalla pandemia, espressione di un malessere generalizzato, e quindi  un’emergenza sociale. Oggi, purtroppo, è sotto gli occhi di tutti il proliferare di questa nuova forma di disagio, aggravata dallo sviluppo incontrollato, e non sempre benefico, delle nuove tecnologie, che ha generato un nuovo ‘mal di vivere’ con conseguenze vistose sul piano dell’equilibrio psico-fisico: quel senso diffuso di solitudine, connessa all’autoisolamento sociale che conduce all’alienazione, e, tra i possibili esiti, alla violenza, a tutti quei mali di cui soffre la società di oggi, pervasa dal delirio di un esasperato individualismo, da un vuoto culturale generalizzato.

Il grido d’allarme contro la pericolosa deriva cui l’uomo stesso sembra condannarsi, è contenuto in un documento diffuso nel maggio scorso negli Stati Uniti da Vivek Murthy, medico statunitense di origine indiana, e principale portavoce  in materia di sanità pubblica del governo federale degli Stati Uniti, il quale ha avuto modo di osservare che l’intero Paese è colpito da una nuova e, forse più grave e pericolosa, emergenza pandemica, quella epidemia di solitudine e di isolamento sociale, di cui si diceva prima, e che ha portato metà degli americani adulti a  vivere in condizioni di estrema sofferenza psicofisica con evidenti ricadute sul piano della salute pubblica  (nell’ultima metà del secolo i nuclei familiari single sono raddoppiati, e la pandemia ha fatto il resto). Si sa bene che la solitudine è un sintomo del sistema che la produce,  legata proprio all’indebolimento del rapporto individuo-società: una condizione di obiettiva sofferenza, di vera e propria malattia, per la quale  il medico statunitense ha indicato, in un fitto documento di circa ottanta pagine, i possibili correttivi (Strategia nazionale per promuovere la connessione sociale). “La solitudine, ha scritto Murthy, è come la fame o la sete. Una sensazione che il corpo ci invia quando qualcosa di cui abbiamo bisogno per la sopravvivenza viene a mancare”.

Di qui l’esigenza, fortemente sentita, di costruire, attraverso la parola poetica, una ‘parola’ ancora capace di colpire e scuotere nel profondo, un argine contro quell’ “autismo corale” di cui parla Arminio, in riferimento a quella condizione di autoisolamento sociale “che ci vede rinchiusi dietro i nostri piccoli schermi, impegnati in una comunicazione che ha perso ardore e vitalità” (La cura dello sguardo). Proprio contro questo spettro Arminio si batte da tempo, offrendo le sue parole come fiaccole per illuminare il presente, e impartendo, instancabilmente, in giro per l’Italia, la sua lezione di ‘umanità’, costruita sulla ‘verità’ delle cose semplici, della natura e dei borghi abbandonati, ben convinto dell’enorme patrimonio di saperi e di valori che questi luoghi esprimono, ma che la ‘mareggiata’ dello spopolamento ha travolto, esponendoli ad inesorabile declino.  Restano i vecchi che si aggirano come  ombre in paesi quasi metafisici, mentre i pochi giovani rimasti sembrano trascinare la loro vita  in un clima depressivo di sfiducia e di angoscia:

Un tempo il paese aveva un suo suono, aveva un suo modo di presentarsi intero agli occhi di chi lo  guardava. Ora sembra dire: guardami, sono in frammenti, vienimi  a cercare dove non abita nessuno, io sono rimasto, io sono la casa che c’è ancora, io sono la porta chiusa, l’erba che nasconde le pietra, l’albero che fiorisce dentro e spunta dalla finestra (“Corriere della sera”, 1 dicembre 2023)

 

 

Ma è proprio qui, nella dolcezza condivisa del vivere comunitario, nel senso di vicinanza, nella percezione dello scorrere del tempo secondo ritmi ‘naturali’, oggi del tutto sconosciuti, che il poeta coglie un antidoto a quella “pandemia da solitudine” di cui si diceva, invocando la necessità di politiche reali consapevoli, capaci di rivitalizzare quei borghi dimenticati, “immettendo giovani, innovazione, lavoro”. É  proprio questo lo spirito che ha spinto Franco Arminio, a compiere, in compagnia dell’amico videomaker Bruno Palma, un viaggio nelle terre dell’abbandono, un viaggio per parole e immagini che ha  portato allo scoperto l’Italia di tante piccole comunità; i risultati sono raccolti in un Abbecedario dei paesi italiani: una sorta di album, con una serie di videoriprese (il primo video della serie è apparso su “la Repubblica” il 29 gennaio scorso), che è ancora un modo per raccontare con un linguaggio, in questo caso, a metà tra il visivo e il ‘parlato’, il dramma dello spopolamento. Ma ancora un invito ad esercitare “la cura dello sguardo”, giacché, “il luogo è un testo che qualcuno ha scritto e qualcun altro legge”,  di qui la necessità, direi, quasi il dovere civile, di saper leggere un territorio “attraverso uno sguardo dolce e clemente”, al fine di evitarne una lettura strumentale o distorta:

Si continua a indagare poco la dimensione dei paesi, come se avessimo un’allergia, al minimo, al marginale, L’attenzione cresce solo  quando arrivano tragedie, come terremoti e alluvioni, e dunque quando il minimo diventa massimo e il margine sale al centro della cronaca, Si tratta di abituarsi a guardare i paesi nei loro giorni usuali […] sapendo che abbiamo un patrimonio enorme, perché solo in Italia esistono paesi assai diversi tra loro […]. In un mondo che tende a diventare tutto uguale, i paesi sono un importante patrimonio di diversità. In un mondo che sta capendo di avere la solitudine tra le malattie più grandi, i paesi sono una riserva di comunità. La loro rigenerazione può diventare una diga contro l’isolamento degli individui e le malattie che questo isolamento produce (“la Repubblica”, 29 gennaio 2024).

 

La ‘cura’ invocata da Arminio passa sempre attraverso una lingua “che si fa strumento di conoscenza, alla ricerca di una comunicazione, di un senso condiviso, di quella intima vicinanza della quale abbiamo tutti più che mai bisogno. E  se non ci sono certezze, se tutti siamo un po’ più fragili, a curarci sopraggiunge la fiducia nella capacità delle parole di unire i nostri sguardi ‘per fare comunità’, per dare coraggio al bene” (La cura dello sguardo).

   La cura dello sguardo si propone quindi come una sorta di manuale utile  ad esplorare il senso vero delle cose e dei luoghi, al fine di restituire valore a quegli elementi minuscoli, anche minimi, del quotidiano, capaci di riverberare vita e bellezza.  Si tratta di quella fede nelle piccole cose che ha sicuramente una matrice rituale, e che deriva dalla sua visione, in certo senso “un po’ panteistica” del reale, “perché penso”, come chiarisce nell’intervista citata, “che la meraviglia e la grandezza del mondo siano fuori di noi e che Dio si possa cogliere in ogni più piccola espressione del creato quindi, osservando la bellezza che ci circonda, ci nutriamo del divino in essa contenuto e curiamo le nostre ferite interiori”. Ancora una volta Arminio sottolinea con vigore la sua natura di “spirito religioso” che aspira all’invisibile, all’altrove, piuttosto incline ad osservare e a cercare il mistero ch’egli coglie “in tutto quanto ‘esiste’ in questo piano dimensionale”. Per me, scrive, “il sacro non è separato da noi e dalla nostra quotidianità, ma ci accompagna in ogni gesto, incontro, oggetto: in questo senso lo definisco “minore” perché  non c’è separazione fra noi e il trascendente, qualsiasi cosa può regalarci un momento di intensità tale da divenire “rivelazione” del divino (Intervista cit.).

È sicuramente questo un tema centrale nello sviluppo del suo pensiero che si ritrova poi emblematizzato in Sacro minore, edito da Einaudi nel marzo dell’anno appena trascorso. Il poeta spesso fa ricorso al sacro affinché l’oggetto risulti carico di senso: «Il sacro quotidiano, minuscolo, persino minimo. Il sacro dei nostri corpi che si incrociano, e si incastrano, e si allontanano, quaggiù sulla terra».

Arminio sa bene che la risposta più efficace ai mali della società odierna può venire soprattutto dalla poesia: “Abbiamo bisogno di poesia./La poesia serve a capire/che la morte è dentro la vita,/non è il suo contrario,/è il mistero che ci accompagna,/non è l’estraneo/che ci agguanta” (Canti). Di qui l’invito a non  privarsi della presenza, negli  scaffali delle nostre  librerie, di testi poetici, del  piacere cioè che la lettura della poesia procura, indicando proprio in quella sorta di  benessere psicofisico che ne deriva, una possibile via di salvezza, ma anche un modo per accedere alla bellezza, arginando quella “epidemia di solitudine” che rischia di sfociare in vere e proprie esplosioni antisociali.

Come un moderno Diogene, alfiere della natura e della semplicità, e alla ricerca dell’essenza vera della vita, Arminio, accompagnato dalle note ‘cosmiche’ della musica di Brunori, tra una parola cantata e una lettura  ‘ispirata’, dà vita al fluire del suo discorso.

Nei tanti eventi organizzati nel corso della manifestazione, egli fa rivivere nel cuore ‘caldo’ del paese (nonostante il rigido freddo invernale), e in gioiosa condivisione, i temi centrali del suo universo poetico, non senza chiarire che i “giorni della letizia” che hanno dato titolo e spinta all’evento, «non sono giornate rivolte al passato, ma racchiudono un mondo pieno di futuro», osservando ancora che «la società basata sull’individuale, soggetta alla dittatura dell’io è una società sostanzialmente vecchia», mentre, al contrario una “comunità” apparentemente dimessa, basata sulla vicinanza, sul piacere del senso condiviso, esprime la dimensione di un mondo lanciato verso il futuro, un mondo fatto di tenerezza, di grazia, di generosità, di salvezza. Ed è proprio qui, nelle parole che accompagnano o introducono i ‘siparietti’ di letture e musiche offerte al pubblico, che riaffiorano i temi centrali del suo pensiero: dalla riflessione sul senso di vuoto e di assenza dei tanti paesi abbandonati, condensata nell’immagine, della “porta chiusa”, ed evocati nella prospettiva dell’amarezza, del dolore, della delusione, alla triste consapevolezza della lenta ma inevitabile involuzione che ha trasformato questi luoghi, un tempo vivi e pulsanti, in “cantieri della sfiducia”. Di fronte al triste scenario dello spopolamento che sigla la ‘definitiva’ disfatta del Sud, Arminio punta sulla necessità di costruire una barriera, una vera e propria “diga contro lo  spopolamento”, in favore dell’uomo-comunità, capace di cooperare con spirito di solidarietà alla valorizzazione delle tradizioni locali, di usi e mestieri, oggi dimenticati: “quel mondo abbandonato/ è tornato necessario/ a se stesso e agli altri” […]. “Abbiamo bisogno di contadini,/di poeti, gente che sa fare il pane,/che ama gli alberi, e riconosce il /vento”.  Che è anche un invito a recuperare una comunità, fatta di vivi ma anche di chi non c’è più, ma che ancora può ‘parlare ai giovani’. In un recente Incontro con l’Autore, Arminio ha ribadito la necessità di far rivivere questi luoghi: “Luoghi e desideri  vanno portati nei luoghi e i luoghi nei corpi. Perché i Luoghi sono fratelli alla Gratitudine . E hanno bisogno di un nuovo umanesimo”.

Punto cruciale nella sua acuta disamina è la valorizzazione delle peculiarità locali, anche attraverso il recupero dei dialetti (intesi come l’espressione  più genuina della vita e della civiltà dei popoli), ma anche del canto (“S. Agostino diceva che chi canta, vive due volte”); canto inteso soprattutto come elemento sonoro, valorizzato, al pari della poesia, in virtù della forte carica liberatoria: “la poesia”, scrive nei Canti della gratitudine, «serve a tenere tutti i sensi aperti, a indossare le ossa degli altri». Arminio esprime così tutta la sua fiducia nei confronti del fare poetico che, oltre ad assicurare il conforto dell’animo e il benessere della mente,  consente di aprirci agli altri, costruendo una barriera contro il delirio antropocentrico che ha travolto l’umanità, schiacciando l’uomo nell’abisso di un esasperato individualismo, della competizione, di uno sfrenato arrivismo:“Essere gentili fa bene a cervello e corpo. Coltivare rancori è un modo poco economico di vivere; anche l’altro deve morire, sii gentile, perdonalo”.

Una fiducia incondizionata nella poesia, felicemente condensata in una delle battute finali del libro: «La morte è la mia dittatura, la poesia è la mia ribellione»; il poeta esprime così, nella forma concisa e stringata dell’aforisma,  tutto il disagio del suo animo inquieto, perennemente in bilico tra l’incessante anelito verso la vita, e  la paura ossessiva della morte. In realtà ciò che esprime Arminio nei suoi scritti, in prosa o in versi che siano, è un’accorata dichiarazione d’amore per le terre di appartenenza, resa nelle più svariate forme espressive, che ha agli antipodi, da un lato la vita, e dall’altro la morte. L’Erlebnis – che attraversa come un flusso incessante gli alvei esistenziali narrati, talvolta deformati o letti da prospettive originali – informa sul significato della vita densa e intensamente vissuta.

In una delle pagine conclusive dei  Canti, Arminio giunge a suggerire una serie di ‘regole’ che toccano la sfera del metodo, dei contenuti dell’insegnamento, e la funzione dell’istituzione scolastica. E proprio  riflettendo su “cosa si dovrebbe insegnare a scuola”, osserva:

Prima di tutto la scuola deve insegnare a essere antichi, insegnare com’era l’uomo greco, il suo essere dentro la vita e dentro la morte come in una sola vicenda, diverso da come siamo noi, noi coatti del vivere separato dalla morte”. E più avanti: “A scuola bisogna partire ogni mattina dalla Grecia. Prima di entrare nelle varie discipline, ci vorrebbe l’ora di mistero, l’ora dedicata alla precarietà  del nostro esserci, l’ora di  poesia, che altro non è che l’ora in cui  vedere le cose dal punto di vista della loro  fine. Se non capiamo il tragico della nostra esistenza, se non capiamo che è ben diverso dalla mestizia consumistica in cui  siamo ingaggiati, siamo già perduti. Il tragico che bisogna insegnare a scuola mette le anime in una naturale disposizione di amicizia con le cose presenti e di attenzione al dettaglio, al posto in cui passiamo, a quell’amico, a quel cibo che  stiamo mangiando, a quel corpo che stiamo abbracciando. A scuola non si deve andare per marciare nelle astrazioni, ma per sapere che ogni vita si  svolge in un luogo ed è sempre in qualche modo una vicenda locale, minore, concentrata in un punto, e che è uno spreco dissolverla in questioni generali, appenderla a  un conformismo generico e questo sì luttuoso, luttuoso  perché  non capisce l’ebbrezza dell’attimo presente, sempre unico e sempre irripetibile.

 

Nella “geografia dell’inquietudine” che Arminio va delineando, acquista particolare rilievo l’auspicio espresso a corollario del libro, che è poi un invito a risintonizzare la “colonna sonora” dei borghi dimenticati, cogliendo nelle varie espressioni che caratterizzano il canto nei diversi paesi (il canto dei mestieri, il canto degli animali, ecc.) gli elementi  utili  a valorizzare le singole realtà locali. Non sorprende allora la sua attrazione  per le tradizioni folkloriche, per la ricerca antropologica ed etnomusicologica, l’interesse per il recupero di melodie, suoni e danze tradizionali del Sud, espressioni, anch’esse, del legame fortissimo dell’uomo con le proprie radici. La riprova è data dalla centralità riservata nei Giorni della letizia al Laboratorio su tarantelle, balli gioco e poesia cantata dell’Irpinia, affidato alle cure di Pino Gala. Ma proprio su questa scelta Arminio ha ben chiarito che essa non vada intesa come difesa di singole realtà locali, o peggio, come ingannevole pretesa di  “potercela fare da soli”: «Tutti abbiamo bisogno dell’aiuto e della solidarietà degli altri, e per salvare questi paesi non basta trattenere quelli che già vivono qui, ma attrarre con ogni mezzo quelli che non ci sono  mai stati, per fare di essi una comunità ruscello contro la comunità pozzanghera degli scoraggiati e degli scoraggianti».

Nè sorprende, nell’ambito dell’interesse per il ‘popolare’, la curiosità per  i dialetti, che costituiscono la fonte sorgiva della vita e della civiltà dei popoli.  E i dialetti rappresentano per lui, sulla scia di Gramsci, un patrimonio di cultura e di civiltà che proprio in quanto tale è necessario salvaguardare e difendere: «La lingua – scrive Gramsci nei  Quaderni dal carcere – non è solo mezzo di comunicazione: è prima di tutto opera d’arte, è bellezza, e che tale sia anche per i più umili strati sociali si vede dal riso che suscita chi non si esprime bene in una lingua o in un dialetto che gli è estraneo  abitualmente».

Partendo da questa consapevolezza Arminio ha dato vita nel corso della manifestazione a una vera e propria performance teatrale invitando alcuni tra i presenti, locali, ma anche provenienti da aree geografiche diverse, a esibirsi nella traduzione, nei loro rispettivi dialetti,  di alcuni suoi versi.

A circa tre anni dalla pubblicazione della Cura dello sguardo, e a pochi mesi dal rituale laico realizzato in Sacro minore, Arminio compie, con  i Canti della gratitudine, un ulteriore passo avanti, direi un passo decisivo, nello sviluppo del suo itinerario poetico. Egli sceglie di misurarsi con un argomento complesso, interrogando il tema della gratitudine, intesa, più che come strumentale riconoscenza, come un’energia positiva in grado di opporre una barriera ai mali di una umanità degradata, spiritualmente impoverita e malata. Arminio avverte con assoluta priorità la necessità di ribaltare la scala dei ‘valori’ su cui alligna questo triste scenario,  e non a caso, quasi provocatoriamente, giunge ad osservare che “i veri intellettuali, oggi, sono i generosi”, ricordando che Gianni  Celati amava leggere a Bisaccia poesie al Centro Anziani, e ricordando ancora, alcuni celebri versi (Gli uomini sono esseri mirabili) che Franco Fortini, il lucido cantore del secolo breve,  dedicò a Lukàcs, in occasione dei cinquanta anni dalla morte. Arminio avrà avuto sicuramente presente la stima che Fortini nutrì per il filosofo ungherese, stima che lo  portò ad apprezzare ciò che Lukàcs ebbe «di più integro e prezioso», e cioè «la proposta imperterrita di misurarci con le massime dimensioni della storia umana e con le massime possibilità  dell’uomo, di rinunciare all’apparenza per preservare quella sostanza che può tramutare noi, il nostro  lavoro, e la società che fa tutt’uno con esso e con noi».

Arminio affina così i ferri del mestiere, portando avanti l’idea della poesia consolatoria: «La gratitudine», scrive, «è una postura da costruire […] un piegare i ferri del nostro io. Chi è profondamente cordiale contrasta la sciatteria egocentrica con cui abbiamo a che fare ogni giorno […]La gratitudine è  una conquista, non è un abito che si indossa […]. E ci conduce a considerare con minore  angoscia anche la fine, perché niente esclude che la morte sia una strada, ma priva di qualunque indicazione, una strada in cui si rimane per un tempo infinito, comunque tutt’altro che una strada sbarrata». E ancora «Rinuncia alla compiutezza./Fatti portavoce/ delle ferite degli altri, sono quelle che più ti riguardano/[…]/Stai vicino ai generosi, ai fragili,/agli innocenti […]”

E in tutti i cinque capitoli di cui si compone il libro (Grazie; Creature dal cuore azzurro; L’Italia dei paesi; Geografia dell’inquietudine; Una gioia da inventare) Arminio prospetta, attraverso i  consueti temi del male, della sventura, dell’ansia, del dolore e della morte, una nuova dimensione dell’umano in cui la cordialità, la gentilezza, la generosità, il perdono, diventano un messaggio ‘forte’ di speranza: “Preghiamo […]per tutto quello che induce/alla vicinanza, alla poesia”; oppure, “ringrazia,/vattene via quando serve,/non portare rancore,/ricorda il male/che hai trasformato in bene,/libera la tua tenerezza,/ma studia il nero del mondo,/Non nascondere lo sconforto,/ringrazialo, intervistalo,/non dare retta/a tutto quello che ti dice,/raccogli la gioia del giorno/se ne trova sempre qualcuna/se ti guardi bene intorno”.

Una conclusione alla quale Arminio giunge con profonda convinzione, che evoca alla lontana l’idea della gratitudine come aspirazione interiore, inaugurata, fin dalla fine dell’Ottocento, dallo scrittore statunitense Wallace Delois Wattles, uno dei primi scrittori ‘motivazionali’ e dei migliori esponenti del movimento  del New Thought. Ma Arminio porta su un piano diverso il livello di osservazione, andando ben al di là della  mera aspirazione al benessere psicofisico, per dar vita, con questi Canti, a una dimensione nuova dell’umano aperta ad accogliere, contro la disattenzione, l’indifferenza, il piacere del semplice, dell’ordinario, ma anche la sofferenza degli ‘esclusi’, dei fragili: “Rinuncia alla compiutezza./Fatti portavoce/delle ferite degli altri,/sono quelle che più ti riguardano./Allenati a vedere il minimo,/il marginale,/ha una grazia che ti porta altrove”. Non a caso tiene a ribadire che i “giorni della letizia” che hanno ispirato a Bisaccia l’evento a cavallo tra il vecchio e il nuovo anno, non siano intesi come nostalgica celebrazione di un mondo perduto: «non sono giornate rivolte al passato, ma racchiudono un mondo pieno di futuro»: è questo l’auspicio che Arminio trasmette con i suoi Canti, tracciando la strada per una convivenza possibile in nome di un  nuovo umanesimo fatto di gentilezza, innocenza, coraggio, salvezza: «Mettila al muro/la piccola ombra della tua vita,/pensa ai contadini e alle loro albe/pensa ai fucilati,/pensa al cuore tremante dei soldati,/al freddo, ai vetri rotti, al fumo nero./Sequestra il tuo lamento,/il giro corto dei tuoi interessi,/continua a dire mille volte al giorno/no alle armi, no alle armi, no alle armi»; o ancora «Devi stupirti ogni mattina/per il fatto che ti sei svegliato./Quando vai a dormire/ringrazia il tuo cuore/di aver fatto tutto il  giorno/il suo lavoro./Perdona la tua mente/per le tue ansie./Ringrazia la tua anima se ti innamori».

Arminio coglie così, dietro il disagio e la solitudine dei fragili, dei dimenticati dalla Storia,  una possibile via di salvezza ponendosi sulla scia dei grandi maestri del pensiero, da Scotellaro a Gatto a Fortini a Celati, a Caproni a Sandro Penna, e frequenti, nel suo pacato discorrere, sono i  riferimenti a questi autori, in una costellazione di ricordi, che costituiscono i punti di forza della sua esperienza poetica e della sua formazione intellettuale. E sul poeta di Tricarico, di cui è apparsa nel gennaio scorso una monografia a sua cura,  si ferma  lungo, dedicando a lui, in occasione del trascorso centenario,  uno spazio di Omaggio,  con una lettura dolente e suggestiva di alcune liriche, scelte per intime affinità elettive: da Come hai potuto madre, con l’ombra buia della solitudine in una terra antica, ad altre che evocano temi drammaticamente attuali, legati alle guerre in corso, e attraversate da fremiti di pace.

Ma è nella seconda parte della serata, coerentemente proseguita nella Casa della paesologia, che Armino si fa davvero interprete felice del suo pensiero, in un suggestivo spirito di condivisione che rende viva e pulsante la sua poesia.  E proprio qui, nella  Casa della paesologia, fra ‘parlamenti’, alternati al piacere del cibo condiviso, con la consueta esplosione di  musiche e danze, si consuma l’omaggio migliore alla poesia come esperienza comunitaria e genuina forma di resistenza.

Arminio si conferma, ancora una volta, nel suo fare poetico, nelle scelte, nel modo stesso in cui gestisce la sua ‘immagine’ di poeta-interprete della sua poesia, se non un fenomeno, un vero e proprio ‘caso’ letterario. Non credo che siano tanti i poeti viventi capaci di catalizzare intorno a sé una folla straripante di ‘seguaci’, affascinati dalla sua parola, né tanti, gli scrittori o poeti viventi che possano vantare un successo editoriale, simile al suo, con edizioni e riedizioni sempre in crescita. Amato dal pubblico, apprezzato dalla critica, Arminio si è guadagnato, oltre ai numerosi premi letterari, la stima di Saviano, il  giudizio favorevole di critici di rilievo (tra cui  quello di Asor Rosa), la lettura nel 2022 sul palco di Sanremo, da parte di Filippo Scotti e di Marco Mengoni di alcuni suoi versi, senza pensare al ‘privilegio’ della recente udienza con Papa Bergoglio in Vaticano. Armino resta indubbiamente uno dei pochi poeti viventi che continua a far parlare di sé, ad interessare pubblico e critica, ad attrarre simpatie, ma anche tanta ostilità da parte di invidiosi, astiosi e malevoli. Un artista che è riuscito a stabilire, anche attraverso i social, un contatto, vivo e diretto, col  suo pubblico affermandosi come il poeta di maggior richiamo sulla ‘scena’ nazionale, ma anche, e senza alcun dubbio, un clamoroso ‘caso’ letterario.